Dovevamo sbrigarci; il tempo premeva, ma la pulizia era importante. Aprimmo i sacchi neri, trasformandoli in teli di plastica. Li stendemmo meticolosamente sul tavolone da macellaio, sul pavimento e sulle pareti circostanti, e in ogni altro luogo in cui, nella foga del divertimento, un’orribile macchiolina rossa sarebbe potuta schizzare inosservata. Infine fu tutto pronto.
Respirammo. Eravamo pronti anche noi.
Raggiungemmo rapidamente la casetta giallo pastello. Stavolta avevamo le mani libere, a parte il laccio di nylon. Un bel cappio fatto con un robusto filo da pesca, l’ideale per stringere legami, specie intorno al collo di qualche malvagio compagno di giochi. Ne avrebbe percepito il sibilo, mentre fendeva l’aria per poi stringersi intorno alla sua gola, e stupito avrebbe udito queste parole: “Vieni con noi, adesso. Vieni a sperimentare il tuo limite”. E lui ci avrebbe seguito, perché non aveva scelta, e la vista gli si sarebbe appannata sempre più, e avrebbe potuto respirare solo a fatica e quando ci piaceva.
E se si fosse messo a dimenarsi e a lottare più del dovuto, sarebbe bastato stringere un poco il cappio, e avrebbe percepito soltanto il suo cuore che batteva a precipizio e il filo di nylon che sibilava: “Visto? Ti abbiamo preso la voce e il respiro e presto ti prenderemo di più, molto di più. Ti prenderemo tutto, e infine ti tramuterai in polvere e buio, e in qualche ordinato sacchetto dell’immondizia…”.
Il pensiero affiorò, irregolare come il nostro respiro. Facemmo una pausa, per rilassarci e lasciare che dita gelide ci placassero i nervi, affinché si inebriassero della prima, cauta scossa di piacere.
Calma. Un altro respiro e tutto ci apparirà chiaro, perfetto e luminoso, e parteciperemo con ferrea consapevolezza dell’unica, vera realtà della notte. Accadrà ora. Stasera.
Adesso.
I nostri occhi si spalancarono in un mondo di ombre e i nostri sensi scivolarono via e si dispiegarono in ogni angolo di buio, pronti a rilevare la seppur minima presenza di un osservatore. Non c’era nessuno: niente uomini, animali o Mostri miei simili. Nessuno si muoveva o ci spiava; eravamo gli unici cacciatori in giro quella notte e tutto era come doveva essere. Eravamo pronti.
Avanziamo con un’andatura fintamente disinvolta fino alla modesta dimora gialla. La oltrepassiamo con cautela e ci infiliamo nell’ombra della siepe della casa accanto, in attesa. Non udiamo suoni, né movimenti. Siamo soli e inosservati. Scivoliamo più vicino, cauti e in silenzio, finché non ci troviamo all’angolo della casa gialla. Respiriamo a fondo, lentamente, confondendoci con le ombre.
Avanziamo ancora, sempre cauti e silenziosi, e tutto va esattamente come previsto: siamo davanti alla portiera della Mustang.
L’auto è aperta: quella spregevole bestiolina ci ha reso le cose fin troppo facili. Scivoliamo sul sedile posteriore senza far rumore e ci fondiamo con l’oscurità del pavimento della macchina, in attesa.
Secondi, minuti… il tempo passa e noi continuiamo ad aspettare. L’attesa è una fase semplice e naturale della caccia. Respiriamo adagio, con calma, e tutto ci appare stupendo, mentre pregustiamo il momento che sta per arrivare.
E arriva.
Un urlo in lontananza, infine l’uscio si spalanca e la coda dell’ultima discussione ci arriva alle orecchie.
— … l’ha detto l’avvocato! — esclama, con la sua vocina stizzita e crudele. — E adesso devo andare a lavorare, va bene? — Sbatte la porta e si dirige come una furia verso la Mustang. Continua a borbottare, anche mentre apre la portiera e si lascia cadere davanti al volante.
Quando sta per accendere il motore le sagome appostate nell’ombra prendono forma e noi balziamo fuori, silenziosi, e il cappio si stringe intorno al suo collo, sibilando, impedendogli di riflettere e di respirare.
— Non un suono, né una mossa — gli intimiamo con la nostra terribile Voce Altra, e lui si immobilizza. — Ascolta bene e fa’ esattamente quello che ti diciamo, e potrai vivere ancora un poco. Chiaro?
Annuisce rigido, gli occhi sbarrati dal terrore, il viso che si fa sempre più scuro per la mancanza d’ossigeno. E noi lasciamo che provi cosa vuol dire smettere di respirare, gli concediamo un assaggio di quel che gli accadrà in eterno, nell’oscurità senza fine.
Stringiamo solo un po’, perché capisca che possiamo farlo molto più forte, finché tutto si ferma, e il suo viso si fa ancora più scuro e gli occhi stanno per schizzargli fuori dalle orbite e riempirsi di sangue…
… poi gli concediamo una tregua, rilasciando il cappio di nylon quel tanto da permettergli di respirare con un rantolo. Infine stringiamo di nuovo, impedendogli di parlare o di tossire.
— Sei mio — gli diciamo.
Lui percepisce la fredda verità celata nelle nostre parole e, mentre si prefigura il suo destino, per un istante dimentica persino che può respirare, e dimena convulsamente le braccia.
Allora riprendiamo a stringere, stavolta un po’ più forte. — Finiscila — diciamo, e lui obbedisce al nostro gelido sibilo di comando. Oscuriamo di nuovo il suo piccolo mondo crudele, non troppo a lungo, però. Quanto basta ad alimentare in lui, una volta allentato il cappio, una speranza, flebile come i raggi di luna, necessaria a mantenerlo docile e quieto, finché la quiete non si trasformi in quella eterna. — Guida — gli ordiniamo, strattonando lievemente il cappio, mentre lui rantola.
Per un istante non si muove. Stringiamo ancora. — Adesso. — Mette in moto febbrile, per comunicarci la sua ansia di compiacerci, e ci allontaniamo lentamente dal vialetto, dall’abitazione giallo pastello e dalla mediocre vita quotidiana, verso l’oscuro e gioioso destino che ci attende in quella splendida notte di luna.
Lo portiamo nella casa vuota con il cappio alla gola, scortandolo rapidamente e con cautela nel buio, fino alla stanza che abbiamo attrezzato: la stanza avvolta nella plastica, in cui dorati raggi di luna filtrano dal lucernario e illuminano il tavolone da macellaio, come un altare nel tempio del dolore. Un vero e proprio tempio di sofferenza, e quella notte noi saremo i sacerdoti, preposti a officiare il rituale, per condurlo all’estrema epifania, e liberarlo nella grazia.
Lo portiamo davanti al tavolone, permettendogli per un istante di respirare, in modo che possa vedere quel che l’aspetta. Quando si accorge che tutto è stato approntato soltanto per lui, la sua paura cresce, e ci guarda per vedere se si tratta di un brutto scherzo…
— Ehi — dice con voce malferma. Un’espressione di consapevolezza si dipinge sul suo viso, e scuote lievemente il capo, per quanto il cappio glielo permette. — Tu sei quel poliziotto — dice, e nel suo sguardo si legge una nuova speranza che si tramuta presto in sfrontatezza e gli fa aggiungere ruvido: — Quel cazzo di poliziotto insieme a quella troia scoppiata di agente! Porca puttana, ti sei cacciato in un bel pasticcio del cazzo. Per una roba simile, cazzo se ti sbattono dentro, brutto pezzo di merda…
Strattoniamo il cappio, stavolta con rabbia, e il suo osceno gracchiare cessa come se l’avessero accoltellato, e ancora una volta il suo mondo si oscura, mentre lui annaspa debolmente per togliersi il nylon dalla gola, e infine perde il controllo delle dita e abbandona la presa. Crolla in ginocchio, ondeggiando, finché non lo stringo forte, sempre più forte, e gli occhi gli escono dalle orbite e si affloscia sul pavimento.
Ora dobbiamo sbrigarci. Lo adagiamo sul tavolone, gli tagliamo via i vestiti, lo immobilizziamo con il nastro isolante prima che si risvegli… cosa che accade prontamente. Sbatte le palpebre e strattona convulsamente le braccia prima di rendersi conto della sua nuova, estrema posizione. Spalanca gli occhi e tenta a fatica di muoversi, ma invano. Allora lo scrutiamo, per spaventarlo ancora di più e aumentare la nostra gioia. Ecco quello che siamo, e perché siamo qui. Siamo coloro che conducono il macabro ballo, e questa è la notte del nostro concerto.