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Riaprii gli occhi. Deke continuava a essere cadavere, e dopo la mia miniseduta spiritica continuavo a ignorarne il come e il perché. Era chiaro che se volevo farmi venire qualche idea, dovevo provarci da solo.

Mi guardai intorno. Deborah era alle mie spalle, a una decina di metri, e mi fissava con un’espressione di rabbiosa attesa. Non avevo niente da dirle e, sebbene non sapessi come avrebbe reagito quando gliel’avessi detto, mi parve orientata ben al di là del pugno al braccio, verso un’arma nuova e potenzialmente ancor più dolorosa.

E va bene: i mezzi della Scientifica mi toccava lasciarli agli altri, per fare gli zelanti non c’era tempo, e il Passeggero mi teneva il muso. Non mi restava che sperare in un colpo di fortuna. Osservai la zona intorno al cadavere. Non c’era nessuna impronta di scarpe fatte su misura per un mancino, né bustine di fiammiferi significative o biglietti da visita abbandonati a terra, e Deke non aveva scarabocchiato con il sangue il nome dell’assassino. Però qualcosa attrasse la mia attenzione. Nel cumulo di spazzatura lasciata accanto al bidone traboccante, presso la porta del cinema, notai che tutti i sacchetti erano del tipo semitrasparente color marrone giallastro utilizzato per i rifiuti industriali. Ma uno di questi, gettato a metà del mucchio, era bianco.

Di sicuro non voleva dire nulla. Forse l’impresa di pulizie aveva terminato gli altri o qualcuno aveva buttato la spazzatura di casa. Eppure, se volevo davvero affidarmi alla fortuna, mi toccava lanciare i dadi. Mi tirai su, cercando di ricordarmi come si chiamasse la dea romana incaricata all’uopo. Fortuna, per caso? Non aveva importanza. Ero quasi certo che parlava soltanto latino, e io non lo conoscevo.

Mi avvicinai con cura all’immondizia, badando a non intaccare nessun potenziale indizio che giaceva a terra, e mi accovacciai un’altra volta, accostando il viso al sacchetto bianco. Era anche più piccolo degli altri, del formato standard che si utilizza in cucina. Ma, cosa più interessante, era mezzo vuoto. Perché mai avrebbero dovuto gettare un sacchetto pieno per metà? Forse poteva capitare alla fine di una giornata di lavoro. Ma questo era infilato sotto altri tre o quattro; o era stato buttato insieme agli altri… Oppure qualcuno l’aveva abbandonato nel mucchio più tardi. Ma allora perché non gettarlo in cima? Perché qualcuno che andava di fretta lo voleva nascondere, agendo in modo stupido e precipitoso.

Estrassi una biro dalla tasca e colpii ripetutamente il sacco con l’estremità non appuntita. Doveva esserci qualcosa di morbido e cedevole, stoffa forse. Premetti un po’ più forte e sull’involucro del sacco affiorarono macchie rosso scuro. Era sangue, senza dubbio. E, anche se non me l’aveva suggerito il Passeggero, ero ragionevolmente certo che non era quello di uno spettatore che si era tagliato un dito con la macchinetta dei popcorn.

Mi alzai in cerca di mia sorella. Non si era mossa e continuava a fissarmi, torva. — Deborah? — feci. — Vieni a vedere.

Mi raggiunse all’istante e si accovacciò accanto a me.

— Guarda — dissi. — Questo sacchetto è diverso dagli altri.

— Gran bella scoperta — commentò. — E questo è tutto?

— No — risposi. — Ce anche questo. — Diedi un altro colpetto al sacco con la biro e ancora una volta sulla plastica bianca comparvero quelle orribili chiazze di sangue. — Sarà una coincidenza — dissi.

— Merda — mormorò seccamente Debs. Poi si alzò e guardò oltre la barricata d’immondizia. — Masuoka! Vieni qui! — Vince la fissò come un capriolo abbagliato dai fari. Lei urlò: — Muoviti! — e lui si affrettò a raggiungerla.

Le procedure standard sono dei veri e propri rituali, ed è per questo che le trovo rassicuranti. Mi piace fare cose che implicano regole ben definite in un ordine consolidato, perché così non devo preoccuparmi di simulare un comportamento adeguato all’occasione. Mi basta rilassarmi e portare a termine le diverse fasi. Ma stavolta la routine mi parve monotona, inutile e frustrante. Ero impaziente di lacerare quel sacco, mentre Vince, in modo lento e metodico, rilevava le impronte: prima tutt’intorno al cassonetto, poi sulla parete e infine su ogni singolo sacco posto sopra a quello bianco. Dovevamo sollevarli muniti di appositi guanti, cospargerli di polvere per evidenziarne le impronte, esaminarli attraverso la luce normale e quella UV, infine aprirli con cautela, rimuovendo e controllando ogni singolo oggetto. Ovvero cianfrusaglie, rifiuti, scarti e altre schifezze. Quando finalmente toccò al sacco bianco stavo per mettermi a urlare e a scaraventare l’immondizia addosso a Vince. Comunque ci eravamo arrivati e la differenza dagli altri era netta.

Se ne accorse pure Vince, che stava cospargendo il sacco di polvere. — Pulito — disse, spalancando gli occhi dalla sorpresa. Gli altri sacchi erano un mosaico di impronte unte e sbavate. Questo era immacolato, come se fosse appena uscito dalla scatola.

— Passiamo ai guanti di gomma — feci. Bruciavo dall’impazienza. — Avanti, aprilo. — Mi guardò neanche gli avessi fatto una proposta indecente. — Aprilo! — esclamai.

Vince strinse le spalle e si mise a sciogliere con cautela il laccio di plastica. — Sei troppo impaziente, cicala — osservò. — Devi imparare ad aspettare, come fanno le formiche. Le cose accadono sempre a colui che…

— Apri quel maledetto sacco — saltai su. Quell’affare mi inquietava molto più di Vince.

Lui si limitò ad alzare le spalle e a rimuovere il laccio, piazzandolo in una busta per i reperti. Mi accorsi di essermi sporto un po’ troppo in avanti, così mi tirai su… e finii addosso a Deborah, che era protesa sopra di me. Non batté ciglio, e si accovacciò nel posto che avevo lasciato libero.

— Masuoka, vieni qui, maledizione — disse.

— Voi due dovete essere parenti o qualcosa del genere — osservò Vince. Prima che potessi tirargli un calcio, aveva aperto il sacco e lo stava rimborsando all’esterno. Vi armeggiò dentro, cauto, e con irritante lentezza cominciò a estrarre…

— La camicia di Deke — osservò Deborah. — Ce l’aveva addosso questo pomeriggio. — Mi guardò e io annuii: me la ricordavo anch’io, era una guayabera beige con palmizi verde acido. Ma ora aveva una fantasia differente: era ricoperta da un’orribile turbinio di macchie di sangue, ancora umide per via del sacchetto sigillato.

Vince estrasse lentamente e con prudenza la camicia insanguinata, e qualcos’altro cadde a terra tintinnando e rotolò contro l’ingresso posteriore dell’edificio.

— Merda — fece Deborah, e saltò in piedi a recuperare l’oggetto che si era fermato poco più in là.

La seguii e, dato che indossavo i guanti, mi chinai a raccoglierlo.

— Fa’ vedere — disse mia sorella.

Aprii il palmo della mano.

Non c’era molto da vedere, in realtà. Sembrava una fiche da poker, perfettamente rotonda e dai bordi dentati come quelli di un ingranaggio. Ma era nero corvino e su una faccia era inciso un simbolo dorato. Sembrava una specie di 7, ma una linea tagliava a metà l’asta diagonale.

— Che cazzo è? — fece Debs.

— Forse un sette all’europea? — dissi. — A volte lo rappresentano così, con una linea che l’attraversa.

— Okay. E che cazzo simboleggia un sette all’europea?

— Quello non è un sette — intervenne Vince, dietro di noi, sbirciando alle spalle di Deborah. Ci voltammo. — È una z corsiva — dichiarò, come se fosse una verità indubitabile. — Con il trattino inferiore consumato.

— Come lo sai? — chiese Debs.

— L’ho già vista altre volte — rispose. — Durante il mio night-clubbing, sai com’è.