Percorremmo un breve corridoio diretti verso quel tremendo fracasso e, mentre ci avvicinavamo, notai il riflesso di una luce stroboscopica, ovviamente nera. Qualcuno gridò: — Uuh! — e le luci, in un guizzo, si fecero rapidamente rosso scuro, poi, quando attaccò un’altra orribile “canzone”, divennero bianco brillante e quindi ultraviolette. Il pulsare proseguiva invariato, ma le due note acute si lanciarono in un nuovo motivo, ora accompagnate da uno stridio devastante, forse prodotto da una chitarra elettrica distorta e mal accordata. Infine la voce, stavolta comprensibile, disse: — Bevilo — mentre il coro in sottofondo esclamava: — Uuuh! — e altri moderni versi d’incitamento. Quando fummo sulla soglia, la voce profonda e malvagia si esibì in una risata diabolica stile vecchi film dell’orrore: — Muahahahaha! — E ci accolse nella sala principale del club.
Dexter non era mai stato un gran festaiolo. Di solito, quando mi ritrovo in un raduno affollato, ringrazio di non essere governato da impulsi umani. Eppure mai prima di allora avevo avuto davanti un esempio più calzante di quanto fosse orribile cercare di divertirsi in compagnia; persino Deborah rimase interdetta per un istante nel vano tentativo di capire.
La sala era avvolta da un fitto strato d’incenso e stipata di gente, a prima vista tutti sotto i trenta e tutti vestiti di nero. Si dimenavano avanti e indietro sulla pista al ritmo di quel rumore terribile, sui volti un’espressione di stordito delirio. Le luci stroboscopiche nere illuminavano i canini, che molti si erano fatti trasformare in zanne, generando sinistri bagliori.
Alla mia destra, su una piattaforma rialzata che ruotava lentamente, vidi due donne. Entrambe avevano capelli lunghi e corvini e una carnagione così pallida che sotto lo sfarfallio delle luci appariva quasi verdastra. Portavano abiti neri talmente attillati da sembrare dipinti sulla pelle, il collo stretto in alti collari e il décolleté a forma di diamante per far risaltare la zona sopra al seno. Stavano molto vicine e, quando si trovavano di fronte, i loro visi si sfioravano teneramente e si toccavano con la punta delle dita.
A un lato della stanza pendevano tre spesse tende di velluto. Una era aperta a rivelare un’alcova in cui si trovava un uomo più maturo, anche lui vestito interamente di nero. Stringeva una giovane donna con un braccio e con l’altro si puliva la bocca. Per un istante un lampo di luce illuminò qualcosa sulla spalla nuda della donna e una vocina mi sussurrò che era sangue. Ma la donna sorrise al compagno, poggiando la testa sul suo braccio, e lui la condusse fuori dall’alcova, verso la pista, e scomparvero nella folla.
Dalla parte opposta della sala si ergeva una gigantesca fontana. Vi gorgogliava fuori un liquido scuro, illuminato da una luce pulsante che cambiava colore a tempo di musica. Dietro alla fontana, investito dal basso da una teatrale e oscena luce bluastra, si stagliava nientemeno che Bobby Acosta. Stringeva un’enorme coppa dorata con incastonata una grossa gemma rossa, e ogni volta che passava un ballerino ne versava il contenuto nel calice che gli veniva teso. Aveva un sorriso stereotipato e, ovviamente, sfoggiava le costose corone appuntite opera del dottor Lonoff. Levò in alto la coppa, guardandosi allegramente intorno, e lo sguardo gli cadde su Deborah. Si irrigidì e, malauguratamente, il contenuto della coppa gli si rovesciò sulla testa e gli colò sugli occhi. Molti dei presenti alzarono imperiosamente i calici e brindarono. Ma Bobby non smetteva di fissare Deborah, poi lasciò cadere la coppa e corse verso un corridoio laterale.
— Figlio di puttana! — Mia sorella si precipitò in mezzo alla pista, tra la calca, e io non potei fare altro che seguirla in quel gregge impazzito.
I ballerini si muovevano in massa in una direzione, e Deborah cercava di tagliargli la strada per raggiungere il corridoio in cui era scomparso Bobby Acosta. Mani vaganti si appendevano a noi da tutte le parti, finché una, affusolata e dalle unghie smaltate di nero, levò il calice in direzione della mia faccia, rovesciandomi qualcosa sulla camicia. La proprietaria della mano era una ragazza snella che indossava una maglietta con scritto TEAM EDWARD. Si leccava le unghie nere e mi fissava, poi ricevetti uno spintone alle spalle e mi voltai verso mia sorella. Un tipo grosso e dallo sguardo vacuo che portava un mantello sul torso nudo afferrò Debs e cercò di sbottonarle la camicetta. Lei si fermò giusto il tempo di tirargli una pedata e assestargli un destro sulla mascella, gettandolo a terra. Intorno a loro, parecchi si misero a strillare allegramente e a spingere sempre più forte. Gli altri li sentirono e si voltarono, e dopo un istante premevano tutti verso di noi, scandendo ritmicamente: — Ehi! Ehi! Ehi! — o roba simile. Poco per volta venivamo trascinati indietro, in direzione del portone da cui eravamo entrati, sorvegliato da Lurch.
Deborah opponeva il più possibile resistenza, e dal movimento delle sue labbra mi accorsi che stava pronunciando una delle sue solite imprecazioni, il che non era affatto positivo. Fummo inevitabilmente spinti fuori dalla pista, e quando ci ritrovammo dinanzi all’ingresso mani forti ci afferrarono per le spalle, ci sollevarono e ci sbatterono in corridoio, neanche fossimo due bambini.
Mi voltai. I nostri salvatori erano due tipi incredibilmente grossi, uno bianco e l’altro di colore, con enormi bicipiti scolpiti che fuoriuscivano dalle eleganti camicie senza maniche. Il nero portava un codino lungo e lucente stretto da un legaccio che pareva fatto di denti umani. Il bianco era rasato e aveva un vistoso orecchino a forma di teschio dorato. Se solo gliel’avessero ordinato, sembravano entrambi risoluti a farci saltare la testa.
Il tipo che comparve in mezzo a loro, mentre ci scrutavano annoiati, pareva avere proprio quell’intenzione. Se il portiere ricordava Lurch, questo era Gomez Addams in persona: sui quaranta, capelli scuri, completo gessato, rosa rosso sangue all’occhiello e baffetti sottili. Ma a differenza di Gomez sembrava parecchio incazzato. Puntò il dito verso Deborah e si mise a urlare, sopra il frastuono. — Nessuno l’ha autorizzata a entrare! — sbraitò. — Questo è un abuso delle forze dell’ordine e io le farò causa!
I nostri sguardi si incontrarono per un istante: all’improvviso, una lama di gelo attraversò l’atmosfera viziata del locale e un tremito mi percorse. Era il Passeggero che mi sussurrava di stare attento. Percepii nell’aria una sagoma nera, rettiliforme, e un tassello del puzzle si incastrò nella mia mente. Mi ricordai di dove avevo sentito parlare di Zanne: nel fascicolo che avevo distrutto con le informazioni sui miei potenziali compagni di giochi. Conoscevo l’identità dell’altro predatore.
— George Kukarov, suppongo — feci, mentre Deborah mi fissava sorpresa. Non mi importava. Ciò che contava era che due Passeggeri Oscuri si erano incontrati, e si stavano mettendo reciprocamente in guardia.
— Chi cazzo sei? — chiese Kukarov.
— Sono con lei. — Come risposta vi apparirà piuttosto soft, ma in realtà sottintendeva un messaggio che solo un altro predatore poteva cogliere, ovvero “Lasciala in pace o dovrai vedertela con me”.
Kukarov mi scrutò a sua volta e in lontananza si percepì il ringhiare sommesso dei due mostri, poi Deborah intervenne: — Di’ a questo coglione che sono un agente di polizia!
L’incanto si ruppe. Kukarov distolse lo sguardo e si voltò verso Debs. — Non avete nessun diritto di essere qui, cazzo — sibilò, e poi, per fare scena, riprese a sbraitare. — Questo è un club privato e voi non siete stati invitati!
Deborah si sintonizzò sul suo stesso volume e aumentò il veleno. — Ho motivo di credere che in questo locale sia stato commesso un crimine… — esordì, ma Kukarov la interruppe.