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Era Samantha Aldovar.

Senza pensarci un istante, afferrai la maniglia e tirai. Anche se dall’esterno la porta non era chiusa a chiave, dall’interno non si poteva aprire. — Samantha — dissi. — Va tutto bene?

Mi sorrise stancamente. — Alla grande — rispose. — È ora?

Non avevo idea di che cosa intendesse, così non ci feci caso. — Sono qui per salvarti — spiegai. — Per riportarti a casa dalla tua famiglia.

— Perché? — chiese. Non c’era dubbio, era proprio stata drogata. Il che aveva un senso: le droghe l’avrebbero tenuta tranquilla, alleggerendo il lavoro di sorveglianza. Ma voleva anche dire che mi sarebbe toccato trascinarla fuori di lì suo malgrado.

— D’accordo — dissi. — Solo un secondo. — Mi guardai intorno in cerca di qualcosa per tenere aperta la cella e scelsi un pentolone da una ventina di litri appeso sopra il fornello. Lo sistemai tra la porta e lo stipite e rientrai.

Avevo fatto appena due passi, quando mi accorsi di qual era il contenuto dei barattoli che affollavano gli scaffali dell’enorme frigorifero.

Sangue.

Barattolo dopo barattolo, litro dopo litro, erano colmi di sangue. Li scrutai per un lungo istante e loro ricambiarono il mio sguardo. Non riuscivo a muovermi. Poi trassi un profondo respiro e la realtà tornò a fuoco. In fondo si trattava di un semplice fluido, simpaticamente messo sotto chiave dove non avrebbe potuto nuocere a nessuno. La cosa fondamentale era portare Samantha fuori di lì. Così avanzai verso la branda e la guardai.

— Forza — dissi. — Torniamo a casa.

— Non mi va.

— Lo immagino — l’assecondai, pensando che fosse palesemente preda della sindrome di Stoccolma. — Andiamo. — La presi per la vita e la feci scendere dalla branda. Non oppose resistenza.

Le misi un braccio intorno alla mia spalla e l’accompagnai alla porta, verso la libertà.

— Un secondo — disse confusamente. — Il portafogli. Sul letto. — Indicò la branda e mi tolse la mano dalla spalla per appoggiarsi allo scaffale.

— Okay. — Tornai alla branda, abbassando lo sguardo. Non vidi nessun portafogli… ma udii uno strano sferragliare. Quando mi voltai, Samantha aveva sferrato un calcio al pentolone da venti litri e la porta della cella frigo si stava chiudendo. — Ferma! — La mia esclamazione apparve più stupida di quanto non lo fosse in realtà.

Dovette averlo pensato anche Samantha, perché non si fermò e, prima che riuscissi a raggiungerla, la porta si era chiusa e lei mi fissava con un’espressione di stordito trionfo. — Te l’avevo detto che non volevo tornare a casa.

27

Dentro la cella frigorifera faceva freddo. Potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma l’ovvietà non aiuta a scaldarsi e, dopo lo shock del voltafaccia di Samantha, non avevo smesso di tremare. Faceva freddo, la stanzetta era colma di barattoli di sangue e non c’era via d’uscita, neanche con l’aiuto del mio cacciavite. Avevo tentato di fracassare la finestrella sulla porta, il che dimostra quanto fossi in preda al panico. Il vetro era spesso due centimetri e mezzo e rinforzato con filo metallico; in ogni caso, se anche fossi riuscito a spaccarlo, ci sarebbe passata a malapena una gamba.

Naturalmente, avevo provato a chiamare Deborah al cellulare e, ancor più naturalmente, all’interno di una cella isolata e dalle spesse pareti metalliche non c’era campo. Sapevo che erano spesse perché, dopo aver rinunciato a rompere la finestrella e aver piegato il cacciavite tentando di far leva sulla porta, mi ero messo a battere per qualche minuto contro le pareti, con l’effetto che se mi fossi messo a girare i pollici sarebbe stato uguale. Il cacciavite si era deformato, quelle sterminate file di barattoli sembravano stringersi addosso a me e io cominciai a far fatica a respirare, mentre Samantha se ne stava seduta, e sorrideva.

Mi chiesi come mai se ne stesse lì, tutta soddisfatta, con quel sorriso da Gioconda stampato in faccia. Doveva essere al corrente che presto o tardi, in un futuro non troppo distante, sarebbe diventata il piatto principale della serata. Eppure, quand’ero comparso io, sul cavallo bianco, pronto a salvarla, aveva tirato un calcio alla porta, intrappolandoci entrambi. Era colpa delle droghe di cui senza dubbio l’avevano imbottita? Oppure si era talmente illusa da credere che non le avrebbero mai fatto fare la fine della sua migliore amica, Tyler Spanos?

Man mano che l’impulso di battere contro le pareti cessava insieme al mio tremolio, cominciai a interrogarmi su di lei. Non sembrava badare ai miei febbrili e goffi tentativi di far saltare un’enorme cella d’acciaio con un fragile cacciavite di metallo, che in questo caso avrebbe fatto meglio a chiamarsi di latta. Samantha non smetteva di sorridere, gli occhi semichiusi, anche quando mi arresi e mi sedetti accanto a lei, lasciando che il gelo si impossessasse di me.

Quel sorriso iniziò a infastidirmi. Era la tipica espressione di uno che aveva appena commesso una strage in ufficio e poi si era imbottito di tranquillanti; sembrava così soddisfatta di se stessa, delle sue azioni e dell’idea che si era fatta del mondo che cominciai a desiderare che avessero mangiato lei per prima.

Perciò le sedetti vicino, tremando e alternando orribili pensieri al suo riguardo. Non solo finora si era comportata male, ma non mi aveva neanche offerto un po’ della sua coperta. Cercai di ignorarla. Impresa non facile quando la persona da dimenticare si trova seduta di fianco a te nello stesso gelido locale, ma ci provai.

Osservai i barattoli colmi di sangue. Mi suscitavano una leggera nausea, ma almeno non mi facevano pensare al voltafaccia di Samantha. Quel disgustoso liquido appiccicaticcio… Distolsi lo sguardo, e finalmente individuai un pezzo di parete da fissare, libera dal sangue e da Samantha.

Mi domandai che cosa stesse facendo Deborah. Era egoistico da parte mia, lo ammetto, ma sperai che stesse cominciando a preoccuparsi seriamente per me. Ormai era da troppo tempo che non tornavo. Me la vidi seduta in macchina che digrignava i denti, tamburellava con le dita sul volante e scrutava torva l’orologio, chiedendosi se fosse troppo presto per fare qualcosa e, in caso contrario, cosa. Mi venne da sorridere. Non tanto perché si stesse dando da fare per intervenire, ma per la sua stizza. Le stava bene. Sperai che digrignasse i denti così violentemente da dover ricorrere al dentista. C’era sempre il dottor Lonoff a sua disposizione.

Per la noia e il nervoso, estrassi il cellulare e provai a richiamarla. Era sempre fuori uso.

— Qui dentro non c’è campo — disse lentamente Samantha, allegra.

— Sì, lo so.

— Allora ti conviene smetterla.

Sono ancora un profano in materia di sentimenti, ma ero certo che lei mi ispirava un’irritazione ai confini col disgusto. — È così che hai fatto? — dissi. — Ti sei arresa?

Scosse lentamente il capo, con un sorrisetto grave. — Per niente — rispose. — Non io.

— Allora, dannazione, perché ti comporti in questo modo? Perché mi hai intrappolato qui dentro e mi guardi con quella faccia?

Si voltò verso di me ed ebbi la sensazione che mi stesse mettendo a fuoco per la prima volta. — Come ti chiami? — domandò.

Non c’era nessun motivo per non dirglielo, e nessuno per non prenderla a schiaffi, ma per ora quello poteva aspettare. — Mi chiamo Dexter — risposi. — Dexter Morgan.

— Cavoli. — Le uscì un’altra delle sue fastidiose risatine. — Che nome strano.

— Sì, davvero bizzarro — replicai.

— Comunque, Dexter — continuò — non c’è niente nella tua vita che desideri da morire?

— Vorrei uscire di qui.

Scosse il capo. — Intendevo qualcosa di… cioè, qualcosa del tutto, aah… del tutto proibito. Qualcosa di totalmente sbagliato. Ma tu lo desideri a tutti i costi, così tanto che… cioè, non lo puoi dire a nessuno, ma ci pensi di continuo…