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Non ci sono più ombre: lei è in grado di vedere il viso.

— Dio! — grida balzando in piedi.

Attraverso il frastuono da lui stesso provocato, sente la sua voce e volta la testa. Sul suo viso gonfio e concitato, gli occhi si accendono di un’espressione incredula. Poi, con un gesto violento, lui si volta dall’altra parte. Riesce a liberare un braccio e con uno scatto si copre il volto. Si allontana in fretta, e gli altri lo seguono. Le porte si chiudono. La stanza è piena di figure immobili e di un mormorio confuso.

Claire resta dov’è, paralizzata, finché una figura snella si stacca dalle altre. Quest’altro viso sembra sospeso in aria, oscurando quello della figura… rosso e contorto, con la bocca spalancata.

L’uomo le afferra il gomito e la spinge verso la porta esterna. — Che cosa sei tu per Dio? Lo conoscevi prima?

— Prima di cosa? — chiede debolmente. Ora stanno attraversando la stanza delle macchine, vuota e piena di echi.

— Uhm. Mi ricordo di te, adesso… ti ho fatto entrare, vero? Ti dispiace essere venuta? — Parla con tono fatuo e indifferente; Claire ha la sensazione che lui stia pensando a tutt’altro. Una lieve irritazione per questo fatto è la prima sensazione che si accompagna al suo stordimento. Mentre camminano si divincola, liberando il braccio della sua stretta. — Che cos’ha? — chiede.

— Una malattia molto rara — risponde lui senza fermarsi. Sono nell’altra stanza, ora, nella penombra sotto l’arabesco luminoso e si dirigono verso la porta d’ingresso. — Non io sapevi? — chiede con lo stesso tono indifferente.

— Ero in viaggio. — Si ferma, e si volta verso di lui. — Non puoi dirmelo? Che cos’ha Dio?

Ora scorge il suo viso magro, il naso e le labbra affilate, gli occhi piccoli e brillanti. — Nulla che ti possa interessare — aggiunge sbrigativamente. Aziona i comandi della porta d’ingresso e questa si apre silenziosamente. — Addio.

Lei rimane immobile, e dopo un momento le porte si richiudono. — Che cos’ha? — ripete.

Lui sospira e punta Io sguardo sui suo abito alla moda chiuso da un fermaglio dorato. — Come faccio a dirtelo? Il verbo «morire» significa qualcosa per te?

Lei è perplessa e spaventata. — Non so… non è qualcosa che capita agli animali inferiori?

Lui fa un piccolo inchino scherzoso. — Molto bene.

— Ma non so di che cosa si tratti. È una specie di attacco… come… — indica con il capo la stanza interna.

Lui la fissa con un’espressione a metà fra la comprensione e l’esasperazione. — Vuoi saperlo davvero? — Si volta di scatto e fa scorrere le dita lungo una striscia alla parete. — Vediamo… Non so che cosa ci sia in questo maledetto nascondiglio. Uhm. Animali. Termine. — Al tocco delle sue dita un piccolo stipo si apre e una scatoletta oblunga gli scivola sul palmo della mano, e la porge a Claire.

Nelle sue mani la scatola si illumina: lei vede una gabbia in cui è accovacciato un piccolo animale… un topolino bianco. Ha il pelo opaco e ispido; intorno al suo muso c’è del liquido rappreso. Si muove incerto, annusa una scodella d’acqua e poi si allontana. Le zampe sembrano cedere; cade e rimane immobile, a parte il ritmico sollevarsi ed abbassarsi del minuscolo petto. Mentre osserva, Claire cerca di reprimere un senso di nausea. I laboratori degli studenti sono sempre pieni di orrori del genere, e loro si aspettano che nessuno provi un senso di disgusto. — Qualcosa non va nel topo — È tutto quello che riesce a dire.

— Sì. Sta morendo. Questo significa cessare di vivere: fermarsi. Non essere più. Capisci?

— No — sussurra lei. Nella scatoletta, il piccolo corpo ha smesso di muoversi. La bocca spalancata, le labbra sono tirate e scoprono i denti gialli. Gli occhi sono immobili e fissi nel vuoto.

— Questo è tutto — dice il suo compagno, riprendendosi la scatola. — Niente più topo. Finito. Dopo un po’ comincia a decomporsi, ed emana un cattivo oaore e alla fine non restano altro che le ossa. E questo succede ad ogni topo che nasce.

— Io non ti credo — dice lei. — Non è così; non ho mai udito una cosa simile.

— Non hai mai avuto un animale domestico? — chiese. — Un gatto, un pappagallino, dei pesci?

— Sì — risponde lei difensiva, — ho avuto gatti e uccelli. E allora?

— Che cosa gli è successo?

— Be’… io non lo so, suppongo di averli persi. Lo sai come si fa a perdere le cose.

— Un giorno ci sono e il giorno dopo non ci sono più — dice l’uomo magro. — Giusto?

— Sì, giusto. Ma perché?

— Abbiamo un mondo così ordinato — dice con aria stanca. — I corpi degli animali morti sono ingombranti; ecco perché i circuiti casalinghi sono programmati per rimuoverli quando nella stanza non c’è nessuno. Senza eccezione: fa parte del programma di base. Naturalmente, se fossi rimasta nella stanza senza voltare le spalle la macchina avrebbe dovuto metterti in imbarazzo, recuperando il corpo in tua presenza. Ma questo non accade mai. Tutte le volte che vedevi che c’era qualcosa che non andava in uno dei tuoi animaletti, voltavi le spalle e te ne andavi, vero?

— Be’, non riesco davvero a ricordare…

— E quando ritornavi, fatto strano, la bestia non c’era più. Non si era persa, era morta. Muoiono. Tutti muoiono.

Lei lo guarda, rabbrividendo. — Ma questo non capita alle persone.

— No? — Stringe le labbra. Dopo un momento aggiunge: — Perché credi che avesse quell’aspetto? Lui lo sa; lo sa da cinque mesi.

Lei trattiene il respiro. — Quel giorno sulla spiaggia!

— Oh, tu c’eri? — Annuisce parecchie volte e riapre la porta. — Molto interessante per te. Puoi dire a tutti che l’hai visto accadere. — La spinge gentilmente nell’anticamera.

— Ma io voglio… — dice lei disperata.

— Che cosa? Amarlo ancora, come se fosse normale? O vuoi aiutarlo? È questo che intendi? — il viso magro è tirato, le sopracciglia aggrottate. — Credi che riusciresti a sopportarlo? Se è così… — Si sposta di lato per lasciarla rientrare.

Lei fa un passo avanti, esitante.

— Ricordati del topo — aggiunge lui seccamente.

Lei si ferma.

— Sta a te. Vuoi davvero aiutarlo? Ne avrebbe bisogno, a meno che non ti faccia un brutto effetto. Allora… dove sei stata in tutto questo tempo?

— In posti diversi — risponde lei bruscamente. — Littlam, Parigi, New Hol.

Lui annuisce. — Allora potresti ritornare a visitare quei luoghi. Cosa preferisci?

Lei rimane immobile. Nei suoi occhi ora le due immagini si confondono; vede il viso gonfio di Dio che la fissa attraverso le rigide mascelle del topo.

L’uomo magro annuisce brevemente. Fa un passo indietro, continuando a fissarla. Un lungo attimo di esitazione; poi le porte si richiudono.

III

Gli anni scivolano via come pagine strappate da un vecchio diario. Claire è a Stambul, Winthur, Kumoto, BahiBlanc… in altre località, troppe per ricordarle tutte. Ci sono le gare intercontinentali, che si svolgono ogni secolo sul campo barocco a forma di ruota di Campan: Claire è tra gli spettatori sospesi sulle nuvole a seguire i propri beniamini. C’è una relazione sentimentale, breve ma intensa: dura quattro o cinque anni, il nome dell’uomo è Nord e se n’è andato a Deya con un’altra donna; per circa un mese Claire è inconsolabile. Ma poi arriva la stagione operistica a Milano e poco dopo, a Tusca, incontra persone affascinanti che stanno per trascorrere un anno a Papeete…

La vita è bella. Ogni mattino si sveglia ritemprata, si riempie i polmoni di quell’aria pura e frizzante, e sente il sangue formicolare fin sulla punta delle dita.