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In un mattino di primavera si sta crogiolando in una bolla di vetro verde, immersa per tre quarti in un oceano verde smeraldo. Le onde spumeggianti del mare si infrangono sul disco luminoso del sole in superficie. Più in basso, dove si trova lei, le verdi e gelide profondità sembrano foglie di menta addentate dal biancore accecante del sole. Minuscoli pesci piatti e dorati sciamano intorno alla bolla, si agitano, luccicando come monetine, e poi scivolano via. L’unità di memoria vicino al pavimento sta riversando in sordina un tempestoso brano di Wagner; ascoltando distrattamente, sente una musica familiare mista ad un borbottio di sillabe straniere. Il suo compagno, con la massiccia testa bronzea quasi all’altezza degli altoparlanti, ascolta attentamente. Claire prova un po’ di irritazione; lo sfiora con il piede nudo: — Ross, spegni quella cosa terribile, ti spiace?

Lui alza lo sguardo, il viso ottuso ha un’espressione addolorata: — È L’oro del Reno.

— Sì, lo so, ma non capisco una parola. Sembra che si stiano schiarendo la gola… grazie.

Un cenno agli altoparlanti e il coro gutturale cessa. — Miliardi di persone parlavano quella lingua, una volta — dice con aria funesta. Ross è un’artista, il che fa di lui quasi un giocatore, in effetti, ma ha l’insopprimibile abitudine degli studenti di uscirsene con queste informazioni in pillole da somministrare a chi gli sta intorno.

— E io non ne sopporto nemmeno quattro — ribatte lei pigramente. — Comunque, io ascolto l’opera solo per la musica, le vicende sono sempre tanto stupide. Mi domando perché.

Vede quasi la risposta erudita che affiora sulle sue labbra; ma educatamente lui la reprime — sa che lei non si aspetta davvero una risposta — e ritorna ad occuparsi del visore. Al tocco delle sue dita si illumina, mostrando un abisso verde che tremola debolmente con gli ultimi bagliori del sole.

— Vai giù ora? — chiede lei.

— Sì, voglio prendere quei coralli. — Ross è uno scultore, non bravissimo, fortunatamente, e nemmeno molto assiduo, altrimenti sarebbe un compagno impossibile. Ha uno studio nel Mediterraneo, a dieci braccia di profondità, e trascorre parte del suo tempo a creare minacciosi grovigli di creature sottomarine stilizzate. Dopo aver usato il visore, aziona i comandi e la bolla si inabissa. Le onde si richiudono sopra di essa sollevando piccoli spruzzi. Poi il cerchio di luce passa dal giallo al verdognolo, fino ad un verde cupo.

Sotto di loro c’è ora la barriera corallina, acri ed acri di lunghe dita, nude e scheletriche, variamente intrecciate. Pochi pesciolini dai colori accesi nuotano tra i rami pallidi. Di nuovo Ross prende i comandi: la bolla ondeggia e si ferma. Per un attimo guarda in basso attraverso il vetro, poi si alza per aprire il portello interno a tenuta stagna. Respirando profondamente e con espressione assorta, entra e chiude dietro di sé la porta trasparente. Claire vede l’acqua che gli sale alle caviglie. Aumenta rapidamente fino a riempire la camera stagna; quando gli arriva al petto, Ross apre il portello esterno e si tuffa in una nuvola di bollicine d’aria.

È una sagoma di colore giallo che si agita nell’acqua verde; dopo qualche istante è quasi completamente offuscata da nuvole di sedimenti. Claire osserva, vagamente turbata; i coralli più grandi sembrano ossa imbiancate.

Programma l’unità di memoria sui Pezzi Marini dal Peter Grimes senza sapere perché; è la musica di un freddo oceano del nord, assolutamente inappropriata. Il richiamo freddo e lontano dei gabbiani la fa rabbrividire di tristezza, ma continua ad ascoltare.

Ross diventa sempre più confuso e distante nell’acqua torbida. Alla fine è solo un lampo, un movimento indistinto giù nella verde valle oscura. Dopo molto tempo lo vede ritornare, con due o tre coralli rosa tra le mani.

Assorta nella musica, ha lasciato che la bolla andasse alla deriva, e il portello è ora quasi bloccato dai coralli; Ross si insinua fra di essi, facendo leva contro un gruppo di rocce, ma dopo un momento appare in difficoltà. Claire si mette ai comandi e fa retrocedere la bolla di un metro. La via è libera ora, ma Ross non si sposta.

Attraverso il vetro lo vede piegarsi, lasciando cadere i coralli. Appoggia saldamente le mani e si tende, gonfiando i muscoli poderosi delle gambe e della schiena. Dopo un momento si raddrizza, scuotendo la testa. Lei si rende conto che ha un piede incastrato in una fenditura della roccia. Le rivolge una smorfia piena di dolore e si porta una mano alla gola. È fuori ormai da molto.

Forse lei lo può aiutare, in quei pochi secondi che restano. Si precipita nella camera stagna e la allaga rapidamente. Ma un attimo prima che l’acqua la sommerga, vede il corpo di Ross irrigidirsi.

Ora, con gli occhi aperti sott’acqua, in quella strana luce confusa, vede il suo volto gonfio contorcersi dal dolore. E in quell’istante il suo viso diviene quello di un altro, quello di Dio, sovrapposto all’immagine vivida e spettrale della smorfia di morte del topo. La visione la coglie di sorpresa e poi scompare.

All’esterno della bolla, le mascelle rigide di Ross si aprono, e poi pendono inerti. Vede la pallida gelatina che affiora lentamente sulle labbra; ora galleggia leggero, con gli occhi riversi e le membra rilassate.

Sconvolta, svuota la camera stagna, rientra e chiama il controllo di Antibe perché mandi una barca di salvataggio. Poi rimane in attesa, evitando accuratamente di guardare il corpo immobile.

Emozioni incontrollabili la sorprendono e la spaventano al tempo stesso. Non hanno niente a che fare con Ross, e Claire lo sa: lui è assolutamente al sicuro. Quando ha cominciato a respirare acqua, il suo corpo ha reagito automaticamente: i polmoni hanno espulso la gelatina protettiva, lui ha perso conoscenza e il cuore ha cessato di battere. Il controllo di Antibe arriverà in meno di venti minuti, ma Ross potrebbe restare così anche per anni, se fosse necessario. Appena uscirà dall’acqua, i polmoni cominceranno a riassorbire la gelatina: quando saranno liberi, la respirazione e il battito cardiaco riprenderanno.

È come se Ross avesse solo recitato una parte, stilizzando e dando un significato ad ogni movimento. In quel momento di dolore, nella mente di Claire una barriera è crollata ed ora vi è un’apertura.

Ha un moto d’impazienza, non è abituata ad essere tiranneggiata in quel modo. Ma le braccia ricadono, inerti; la perversa attrazione esercitata da quell’apertura è troppo forte. Dio, grida silenziosa la sua mente, Dio.

Il progettista del Settore Venti, nel periodo in cui lei è stata lontana, ha cambiato il disegno delle strade «per creare l’effetto di superficie». Il soffitto di ogni livello è uno schermo che riflette fedelmente la vista che si gode in superficie e, attraverso giochi di luce ed altri trucchi ingegnosi, il clima viene riprodotto anche sotto terra. Ora è una fredda e cupa giornata di novembre, segnata da una pioggia grigia e sferzante: sollevando lo sguardo si vede la distesa interminabile del cielo color piombo; e anche se l’aria è piacevolmente calda, come sempre, le grandi lastre nude delle facciate degli edifici sono diventate di un azzurro grigiastro per armonizzarsi con il paesaggio, minuscoli rivoletti argentati scorrono zigzagando verso il basso, scomparendo prima di toccare il marciapiede.

A Claire non piace: non le sembra opera di Dio. La folla ha un’aria nervosa, strana, quasi risentita: guardano in alto e ridono, ma a disagio, e le aree ricreative sono piene di gente che si accalca sotto la vivida luce gialla. Claire si stringe al collo il mantello di metallo; pensa malinconicamente al mutare delle stagioni, e alla terra che diventa fredda e dura come l’acciaio, agli alberi spogli e neri contro il cielo ostile. Sottoterra, questo è il momento per cieli azzurri, corpi accaldati e risa gioiose, e non per questo grigiore opprimente.