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Quei contratti per lo smaltimento dei rifiuti sarebbero bastati ad arricchirlo, ma fu solo l’inizio. Il suo successivo era stato il mettersi in concorrenza con noi.

Qualche genio misconosciuto sul libro paga di Appermoy l’aveva informato che tutta quella radioattività, sepolta su cime sommerse a poche centinaia di metri sotto la superficie, avrebbe provocato un surriscaldamento dell’acqua e una conseguente forte corrente ascensionale e la corrente poteva essere sfruttata con turbine azionate ad acqua. Questo fu ciò che Appermoy fece, costruendo un impianto per la produzione di energia elettrica e usandola per ottenere azoto dall’aria e idrogeno con l’elettrolisi. Ma non sfruttò la corrente ascensionale solo per questo, dato che risalendo essa portava alla superficie i detriti organici del fondale accumulatisi in milioni di anni. Se voi vi trovaste quella roba sul pavimento del soggiorno la spazzereste via, disgustati; ma se ve la trovaste nel giardino sarebbe la delizia del vostro cuore, perché è l’humus più ricco del pianeta. E mentre viene alla superficie nutre i microrganismi che nutrono il krill che nutre i pesci. Appermoy ci aveva messo poco a trasformare quei bassi fondali nelle zone più ricche di pesce dell’oceano, e questo gli aveva portato altri soldi nelle tasche. In quanto al genio che suggerì questo progetto, non so quale premio Appermoy gli abbia dato. Molto probabilmente gli ha regalato un paio di scarpe nuove, in solido cemento, e lo ha mandato giù su quei fondali a supervisionare il fango che lentamente risale a galla.

Il sistema funzionava, anche se il principio su cui si basava era quasi l’opposto del nostro. Noi pompavamo su acqua fredda, usandola per far condensare di nuovo il liquido a basso punto d’ebollizione. Appermoy scaldava l’acqua del fondale con i suoi rifiuti radioattivi, per ottenere gli stessi nostri prodotti industriali e inoltre ricavare migliaia di tonnellate al giorno di pesce, che rivendeva sul continente con buon guadagno.

Dunque era una famiglia ricca; ma non certo una famiglia onesta. Il loro impero era fondato sull’inquinamento delle acque oceaniche, ed era nato da denaro ancor più sporco e velenoso. Appermoy se l’era infatti procurato — come il commodoro — con il matrimonio ma, mentre il commodoro aveva sposato una Lady, Appermoy aveva impalmato l’erede di quattro generazioni di capi della Mafia. Non c’è bisogno di dir altro per spiegare come aveva ottenuto i contratti e gli appoggi necessari. E questo spiega anche perché nessuno cercava di scalzarlo dal mercato. Altri avevano acquistato isole sommerse di quel genere, ma non erano riusciti a procurarsi i permessi necessari oppure era accaduto loro qualche incidente.

Se la sua famiglia aveva le mani sporche, mi mancavano però gli elementi per poter dire lo stesso di Frank. Nei dati di cui disponevamo non risultavano peccati di alcun genere, a meno che non si voglia definire peccato la fissazione per il gioco del polo. Comunque non rientrava nelle peculiarità di Ben Zoll, salvo che nella prima. Perché ricco lo era. Ma non si può chiamare istruito uno il cui solo scopo nella vita è di colpire una pallina stando sulla groppa di un cavallo, e certamente non era possibile definirlo bello. Uno dei suoi quadrupedi lo aveva disarcionato, passandogli con gli zoccoli sulla faccia. Dai dati in archivio risultava che non s’era ancora pienamente rimesso, e c’era anche una fotografia che lo confermava. Benché il lato destro del suo volto fosse stato rifatto a nuovo, qualcosa nei lineamenti non tornava. Non dico che sembrasse disgustoso o repellente, però nessuno avrebbe potuto chiamarlo bello… neppure sua madre e tutta la stirpe di mafiosi e criminali da cui discendeva.

E tuttavia la mia May aveva deciso di sposare quell’uomo.

Gli esploratori ci avevano trovato un’ottima corrente fredda su cui operare, a sud delle Filippine, e la stavamo sfruttando bene. Ogni grado in più, nella differenza fra la temperatura di fondo e quella di superficie, assume un gran valore quando si lavora con margini ristretti come i nostri. Così ci trovavamo a migliaia di chilometri ad ovest delle Hawaii e venne buio prima che May e il suo damerino mi chiamassero. Ero seduto sulla mia piccola veranda e fissavo la Croce del Sud, rimpiangendo amaramente di non avere vent’anni di meno, quando il visifono squillò.

Ed eccoli lì sullo schermo, tutti e due. Lui le teneva un braccio attorno alle spalle e mi sorrideva di un distorto — ma non diabolico — sorriso, e May aveva l’aria di scusarsi ma appariva radiosa. — Oh, zio Jason, tutto è successo così in fretta! — esclamò. Era la prima volta in vita sua che mi chiamava zio. — Avrei voluto chiamarti cento volte, ma…

— Non fa niente — mentii.

— Tu verrai al matrimonio, non è vero? Ti prego!

Come se ci fossero dubbi sulla cosa! Ma il giovanotto aggiunse doverosamente la sua preghiera: — Lei è la sola famiglia di May, signore. — Nessuno degli amici di lei mi aveva mai chiamato signore, dovevo ammetterlo. — Mia madre dice che sarà una seconda mamma per lei. Ha sempre desiderato avere una figlia, e Dio sa, signore, quanto io desideri la felicità di May. Perciò non sarebbe giusto che ci sposassimo se lei non fosse qui con noi.

Il reato che avevo commesso era caduto in prescrizione da molti anni, ma non avevo nessuna voglia di rimetter piede sulla terraferma, neppure su un’isola. Specialmente su un’isola di proprietà degli Appermoy. Ma lui bloccò ogni mia obiezione: — Deve venire, signore, perché tutti noi vogliamo che sia lei a condurre la sposa all’altare.

E così gliela condussi all’altare.

La condusse lungo il sentiero fiorito di fronte alla grande villa di South Point, con il Kilauea che fumava quasi dietro la casa. May portava un lei intorno al suo collo vellutato; il prete aveva un microfono fissato al colletto per far sì che i quattrocento invitati udissero ogni parola; e Betsy mi sorrideva odiosamente dalla prima fila di sedie. Ma lo sposo era pallido e zuppo di sudore, perché pochi minuti prima della cerimonia aveva avuto una specie d’attacco di convulsioni. Aveva modi abbastanza piacevoli il giovane Frank Appermoy. Ma io odiavo l’idea di condurre May all’altare per consegnarla a un altro, fosse di modi piacevoli o spiacevoli, fosse ricco o povero, giovane o vecchio. E specialmente a uno che, per quanto ne sapevo, ogni tanto cadeva preda di convulsioni o terribili mal di testa. Desideravo soltanto che lo zoccolo di quel cavallo avesse premuto un po’ più forte.

Non so se furono felici oppure no: suppongo che lo siano stati. L’anno dopo ebbero un bambino, James Reginald Appermoy, e neppure dodici mesi più tardi qualcosa nel cervello lesionato di Frank cedette. La mia May restò dunque vedova all’età di ventidue anni. E quella strega della suocera disse che era stata lei a ucciderlo.

A ventun’anni sull’altare ella sorrise, ma il lutto all’abito assai presto mise. La falsa madre la chiamò assassina, la falsa sorella pregò per la sua rovina. L’attendeva una vita d’inganni e tradimenti, dolce sfortunata regina dell’isole vaganti.

May non poteva restare alle Hawaii con la vecchia suocera Appermoy che faceva circolare calunnie scandalose sul suo conto. Ben il Bastardo la invitò a tornare a casa. Non all’isola galleggiante su cui era cresciuta, dove gli alloggi erano stati tolti per far posto ad altri impianti per l’elettrolisi, ma alla residenza costruita sull’ultima e più grande isola di nuova costruzione. Due milioni di tonnellate di stazza! Adesso era davvero possibile definire isole quelle imbarcazioni, e sul ponte di prua la tenuta del proprietario avrebbe ospitato non una ma una dozzina di famiglie numerose. Malgrado questo dapprima Ben dichiarò che per me non c’era posto a bordo, con il solo scopo di costringere May a pregarlo. — Oh, be’ — cedette poi, fingendo un impulso generoso, — almeno si renderà utile cambiando i pannolini al bimbo. Gli troverò una stanza negli alloggi dell’equipaggio.