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— Può anche darsi che tu voglia — annuii, — però io non le vendo.

Mi fissò a occhi socchiusi. Era lo sguardo di chi ha messo a posto alcuni tasselli di un puzzle, ma non abbastanza da farsi un’idea del disegno. — Ti sei divertito nella tua piccola vacanza in Islanda? — chiese.

Non avevo mai dubitato che mi facesse spiare, così non mi presi la briga di rispondere. Lui continuò: — Te le pagherò molto più del loro valore di mercato.

— Per me valgono ancor più di quel che possono valere per te, Ben — dissi, e gli volsi le spalle. Mentre mi allontanavo lo sentii tossire spiacevolmente. Era un uomo malato.

Tornai nel mio alloggio e cominciai a studiare gli inutili documenti legali fornitimi dall’avvocato, ma avevo la testa altrove. Parte dei miei pensieri giravano intorno a May, come sempre; parte di essi riguardava però Ben. Non potevo augurare niente di bene al Bastardo, tuttavia non lo volevo morto. Sapevo chi avrebbe ereditato le sue azioni. E l’avvocato di Reykjavik mi aveva detto che Ben poteva trasmettere a ogni erede l’incarico di guardiano di May… anche se l’erede era più giovane di lei e nonostante l’assurdità della clausola.

Ma non riuscivo a togliermi dalla testa la certezza che May avrebbe voluto dirmi qualcosa prima di partire, così decisi di sapere cosa. Tre giorni più tardi dissi al mio segretario di prendersi una settimana di vacanza, poi presi il volo con lo stesso aereo.

In quel periodo stavamo costeggiando le Filippine, e il jet mi sbarcò a Manila. Da lì un volo orbitale mi portò al grande terminal galleggiante fuori Sandy Hook, quindi presi un elicottero fino al tetto del mio albergo.

La terraferma non mi piace. E non mi piace la folla, con i suoi rumori e i suoi odori: detesto l’atmosfera delle città. Avevo preso un appartamento nello stesso albergo dove alloggiava May, e non avevo intenzione di uscirne che per far visita a lei. Così, appena mi fui lavato e cambiato, uscii in corridoio e l’ascensore mi portò una dozzina di piani più in alto. Bussai alla sua porta. Ad aprirmi venne Tse-Ling Mei. — Zio Jason! — esclamò, sorpresa e felice ma con un filo d’ansia per la mia imprevista comparsa. — Oh, cielo! Entra, ti prego!

Nell’appartamento c’erano le altre quattro May. E c’era anche il piccolo Jimmy Rex, che nella sua stanzetta strillava a più non posso rifiutando di fare il suo sonnellino, ma la mia May non era in albergo.

Le ragazze s’affrettarono a farmi sedere e mi si affollarono attorno, belle e profumate come fiori di campo. — Gradisci un po’ di tè? — chiese Mei, e — Hai mangiato? — s’informò Maisie, e — Quello di cui Jason ha bisogno è un buon drink — fu la diagnosi di May Sue Bancroft, mentre Ellamay Holliston-Pierce esclamò invece: — Oh, per favore, raccontaci le ultime novità della Flotta!

Così chiacchierammo per un po’ e cominciai a rilassarmi, anche se m’infastidiva vedere che le ragazze sembravano non avere idea di quando May sarebbe rientrata. Poi May Sue Bancroft gemette: — Oh, all’inferno! — Ci voltammo a guardare cosa succedeva. Sulla soglia del soggiorno c’era Jimmy Rex, scappato in qualche modo dal suo lettuccio e venuto non tanto a curiosare quanto a darci dei dispiaceri: in una mano teneva il pannolino asciutto che s’era levato, e con l’altra si stava aiutando, deliberatamente, a orinare sul costoso tappeto Aubusson. Capite ora che imprevedibile estrazione a sorte sia il mettere al mondo un figlio? Se ci fosse andata bene avrebbe preso da sua madre; ma perfino se avesse preso dal padre non sarebbe stato nulla di peggio che uno sciocco. Invece, nella caotica lotteria dei geni e dei cromosomi lui aveva estratto l’anima della sua nonna materna, quella cagna perversa, e ancora non sapevo fino a che punto mi avrebbe fatto soffrire.

Quel che fece quel giorno, comunque, fu di rovinare l’umore a tutti quanti. Mi alzai per andarmene. Tse-Ling Mei aveva agguantato il piccolo mostro, mentre Maisie tentava di rimettergli il pannolino ed Ellamay era corsa nel bagno in cerca di una spugna per salvare il tappeto. May Sue Bancroft invece disse: — Ti accompagno giù al tassì, ma lo sguardo di lei mi azzittì all’istante.

Così ci avviammo in corridoio tenendoci per mano ed entrammo in ascensore — cosa che mi fece salire il cuore in bocca perché non ero più abituato alle discese ad alta velocità — poi lasciai che lei mi guidasse nell’atrio verso un’uscita sul retro. In strada mi fece girare in fretta un angolo, si guardò attorno con misteriosa cautela e fermò un tassì. Io ero vestito per il clima caldo delle Filippine, mentre a New York eravamo in novembre, e anche May Sue non indossava molto. Disturbato dagli odori, dalla ressa dell’albergo e dai troppi rumori l’avevo lasciata parlare a ruota libera fino in strada, e in tono indifferente lei m’aveva informato che Tse-Ling Mei aveva avuto una parte importante in un film, che Maisie stava per sposarsi, che Ellamay aveva messo su un ospedale non so dove, nel Jersey o nell’Indiana, e che lei era tornata all’università per prendere la laurea in legge. Ma appena mi ebbe ficcato nel tassì mise dentro la testa per baciarmi un orecchio. E quello che mi diede non fu un bacio: sussurrò un indirizzo e un numero, quindi si volse e s’allontanò subito senza voltarsi indietro.

Ormai ero abbastanza insospettito per non fermarmi a quelle semplici precauzioni, cosicché un po’ più avanti scesi dal tassì, camminai cinque minuti malgrado il freddo e ne presi un altro in una viuzza secondaria. Poco più tardi ero sul posto.

L’indirizzo corrispondeva a un alberghetto vecchio e scalcinato; il numero era quello di una camera da poco prezzo all’ultimo piano. Nel corridoio stagnava il puzzo della marijuana misto a quello di calzini sporchi e di sudore. Bussai, e la porta mi venne aperta da un individuo sulla quarantina, scalzo, con la camicia sbottonata e i pantaloni tirati su ma ancora mezzo aperti sul davanti. Malgrado ciò aveva un aspetto sobrio e posato, elegante, non il tipo d’uomo che uno si aspetterebbe di trovare in un pollaio frequentato dalle prostitute e dai loro clienti.

E dietro di lui, distesa su un letto sfatto e con indosso soltanto la sottoveste, c’era la mia May. Sul volto aveva un’espressione sbigottita e spaventata.

— Non è come puoi pensare, zio Jason — disse in fretta a me. E all’uomo: — Svelto! Fallo entrare e chiudi!

Lui non esitò un istante. Mi afferrò per un gomito, con forza sorprendente per la sua esile corporatura, e mi tirò in camera. Poi mise fuori la testa, controllò il corridoio e chiuse la porta. Si volse a osservarmi.

— Mi chiamo Jefferson Ormondo — disse. — Lavoro in banca, ramo investimenti. Spiacente che ci abbia trovati così, ma le finestre sono inchiodate e non è possibile spegnere questo maledetto impianto di riscaldamento. Ben Zoll ha orecchi dappertutto. Capisce? — Nel parlare si riabbottonava; sedette a infilarsi le scarpe e disse: — Scendo a dare un’occhiata nell’atrio per accertarmi che non sia stato seguito. May le spiegherà in che termini sta la situazione. — Uscì, lasciandomi in quella squallida stanza con la mia dolce May seduta sul letto, davanti a una situazione che parlava da sola.

— Stiamo cercando di eliminare il controllo di Ben sulle mie proprietà — mormorò lei, alzandosi.

— Questo non è possibile… — balbettai. Ma ciò che la mia faccia stava dicendo era: Questo non è bello da parte tua, May. Gettarti in un’impresa simile senza il mio aiuto! E fu alla mia faccia che lei rispose.

— Jason, caro, io non ho segreti per te. È una cosa che non posso fare senza di te.

— I migliori avvocati di Reykjavik mi hanno già detto che non c’è speranza — le riferii. — Il testamento di tuo padre è inattaccabile.

— Anche se fosse stato falsificato, Jason?

La fissai, esterrefatto.

— Falsificato — ripeté, annuendo. — Non completamente: soltanto le date. Mio padre aveva stabilito che la tutela finanziaria terminasse al mio ventesimo compleanno, ma Ben è riuscito a corrompere qualcuno e ha fatto aggiungere dieci anni alla scadenza.