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— Sono certa, Ambryn, che al nostro ospite non interessano più di tanto i nostri problemi di famiglia. — Al burocrate non sfuggì il modo in cui Ambryn fece un passo indietro, né l’atteggiamento di sfida con cui lo fece. — Posso chiedervi che cosa volete da nostra madre?

— Ma certamente. — Esme gli porse un delicato bicchiere di cristallo pieno di birra. — Grazie. — Appoggiò accanto al suo gomito un piattino di porcellana merlettato, leggermente translucido persino nella fioca luce serale. Era una porcellana leggerissima, di una delicatezza pressoché incredibile. — Faccio parte della divisione Technology Transfer del governo del Sistema. Volevamo parlare con vostro fratello, ma sfortunatamente non ci ha lasciato il suo recapito. Magari voi…? — Lasciò scemare la voce e sorseggiò la birra. Era lager, leggerissima e quasi insapore.

— Noi di sicuro non lo sappiamo — intervenne Lingore con tono freddo.

— Siete il suo agente? — intervenne Ambryn. — Se n’è andato di casa quando era ancora ragazzino. Non ha diritto! Noi abbiamo lavorato per tutta la vita, siamo schiavizzate…

— Ambryn — intervenne sua sorella con tono di rimprovero.

— Non m’importa. Se penso a tutti gli anni di lavoro, a tutta la sofferenza, a tutta la merda che ho dovuto subire…! — La donna si appellò direttamente al burocrate. — Tutte le mattine le lucido gli stivali, tutte le mattine da cinque anni a questa parte! Sono costretta a inginocchiarmi sul pavimento davanti a lei, mentre lei mi dice che vuole lasciare le cose migliori a Lingore. E non si alzerà più da quel letto.

— Ambryn!

Le due donne tacquero, scambiandosi un lungo sguardo. Il metronomo oscillò pesantemente per sei volte, e il burocrate pensò che l’Inferno doveva essere qualcosa di molto simile a questo. Infine Lingore ebbe il sopravvento, e sua sorella scostò lo sguardo. — Gradite un altro bicchiere di birra? — domandò timidamente Esme dalla penombra.

Il burocrate sollevò il bicchiere ancora pressoché pieno. — No, grazie. — Emse gli ricordava un topo, piccolo e nervoso, che sta nascosto in prossimità delle zone illuminate nella speranza di raccogliere qualche piccola briciola. E dire che su Miranda anche i topi erano dimorfici, come tutto il resto. Alla fine del grande anno avrebbero nuotato nel grande oceano e sarebbero morti in gran numero, mentre i pochi sopravvissuti si sarebbero trasformati in… cercò di ricordare… piccole creature anfibie, come delle foche in miniatura. Si domandò se anche quella donnina cambiasse aspetto, col sopraggiungere delle maree?

— Non credere che non mi accorga del modo in cui ti approfitti di lei — sbottò con rabbia Ambryn. — La signorina Innocua Mansueta. Ti ho vista, sai, mentre nascondevi la salsiera d’argento.

— La stavo solo pulendo!

— Certo, la stavi pulendo, ma nella tua stanza!

Un velo di panico nello sguardo. — In ogni caso, ha detto che era mio.

— Quando? — ribatterono le altre due sorelle all’unisono con tono scandalizzato.

— Proprio ieri. Potete anche chiederglielo.

— Ma ricordate… — Lingore rivolse un’occhiata al burocrate e abbassò la voce, girandosi per dargli le spalle. — Ricordate che mamma ha detto che dovevamo dividerci l’argento in parti uguali. Lo ha sempre detto.

— È per questo che ti sei presa le molle dello zucchero? — domandò Ambryn con tono innocente.

— Non è vero!

— Invece sì.

Ascoltando con grande attenzione, il burocrate appoggio il bicchiere. Lo posò un attimino più forte di quanto non avesse inteso, e contemporaneamente udì il debole crac della porcellana che si crepava.

Grazie al suo ottimo udito, Esme fu l’unica sorella che se ne rese conto. Con un rapido quanto silenzioso cenno del capo, spazzò via i cocci e li sostituì con un altro piattino prima che qualcuno potesse accorgersi dell’accaduto.

— Dal momento in cui l’eredità di mamma sarà stata divisa — stava dicendo Ambryn — me ne andrò da questa casa e non vi rimetterò mai più piede. Per quel che mi riguarda, senza mamma non vi è alcuna famiglia, e non sono imparentata con nessuna di voi.

— Ambryn! — squittì Emse con tono disgustato.

— È vergognoso parlare così, mentre mamma sta morendo proprio sopra le nostre teste! — esclamò sua sorella maggiore.

— Non morirà, non morirà, perché sa quanto ci farebbe felici — ribatté Ambryn. — Rimarrà in vita solo per farci dispetto. — Le sue sorelle le rivolsero smorfie di disapprovazione, ma di fatto non misero in discussione questa sua ultima dichiarazione.

Dopodiché tacquero improvvisamente, apparendo stranamente soddisfatte, come se avessero appena messo in scena un dramma privato per il piacere del burocrate e stessero attendendo il suo applauso per prendersi per mano e inchinarsi. Il loro atteggiamento collettivo sembrava voler dire: “Ecco, ora sapete tutto di noi”. Si trattava di una scena provata e riprovata, e il burocrate si rese conto che chiunque fosse entrato in quella casa non avrebbe mai potuto uscirne senza assistere a qualche variante della stessa commedia.

In quel momento il dottore scese dalle scale e le tre donne alzarono contemporaneamente i loro sguardi ansiosi verso di lui. L’uomo scosse il capo con aria solenne, quindi se ne andò. Un gesto a dir poco ambiguo.

— Venite. — Lingore salì per le scale.

Pur essendosi ormai guastato l’umore, il burocrate la seguì.

Lo condusse in una stanza in cui l’illuminazione era talmente fioca da non farne comprendere le dimensioni. Al centro dominava un enorme letto circondato da tende che pendevano da ganci di ottone fissati nel soffitto. Il motivo stampato sulle tende era una landa luminosa popolata da satiri, astronauti, ninfe e capre. Ai bordi delle stesse tende erano ricamate le costellazioni della vecchia terra, accompagnate da bacchette magiche, orchidee e altri simboli di magia generatrice. I colori erano sbiaditi dagli anni, e in certi punti la stoffa consunta aveva ceduto sotto il suo stesso peso.

Sopra il letto, sistemata su un possente trono di cuscini, vi era una donna di un’obesità grottesca. Era talmente vasta e passivamente immobile che il burocrate non poté fare a meno di pensare a una termite regina. Il suo volto era pallido, come pasta per il pane, la sua bocca una piccola fessura di dolore. Una mano carica di anelli aleggiava sopra una tavola posta sul suo stomaco gonfio, sulla quale vi era un cerchio di carte da gioco; stelle, coppe, regine e fanti in solenne processione. Uno schermo televisivo silenzioso irradiava luce azzurrognola ai suoi piedi.

Il burocrate si presentò, e la donna annuì senza alzare lo sguardo dalle sue carte. — Sto facendo un gioco che si chiama futilità — disse. — Lo conoscete?

— Come si vince?

— Non si vince. Si può solo rimandare la sconfitta. Sono riuscita a portare avanti questa partita da diversi anni, ormai. — Alzò lo sguardo verso sua figlia.

— Non credere che non capisca di che cosa stai parlando.

— Dipende tutto dagli schemi — disse la vecchia. Fra una frase e l’altra, era costretta a fermarsi per un attimo per riprendere fiato. — I rapporti fra le cose cambiano e mutano in continuazione; non esiste una realtà oggettiva. Vi sono solo schemi, e uno schema maggiore all’interno del quale avvengono tutti gli schemi minori. Io capisco lo schema maggiore, e quindi ho imparato a far danzare le carte. Tuttavia, inevitabilmente, prima o poi il gioco deve finire. Vi è molto della vita nel modo in cui una persona legge le carte.