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— Mi piacerebbe lo stesso.

— Non hai assolutamente idea di che cosa comporti, fratellino. Potrei chiederti di fare qualsiasi cosa, come… che so, crocifiggere un cane. O assassinare uno sconosciuto. È un processo che ti cambia. Potrei addirittura ordinarti di scoparti il vecchio Pouffe. Saresti disposto a farlo? Qui e subito?

Pouffe era seduto davanti a loro, con le spalle verso le paludi. Il suo volto era paffuto ed esangue alla luce della finestra. I suoi occhi erano come due stelle poco luminose, immobili. Il burocrate ebbe un attimo di esitazione. — Se necessario…

— Non sei nemmeno bravo a mentire. No, devi rimanere lì dove sei, incatenato a quel puntello. Devi rimanerci finché non verranno le maree. Dopodiché, morirai. Non c’è via d’uscita. Solo io posso liberarti, e la mia volontà è ferrea. Piombò il silenzio. Il burocrate immaginò di poter sentire l’oceano, il suo sussurro dolce e distante.

— Dimmi — disse Gregorian — pensi che gli spettri siano sopravvissuti fino alla nostra epoca attuale?

Il burocrate rispose con tono sorpreso. — Ma non hai appena mandato una testa di spettro a tuo padre?

— Quella? Non è altro che un trucchetto da quattro soldi che sono riuscito a mettere in piedi con i vecchi alambicchi da laboratorio di Korda. Avevo a disposizione questi cadaveri di vecchi ricchi che mi sono avanzati da una delle mie imprese mirate a guadagnare soldi, e mi è sembrato che fosse un buon modo per utilizzarne uno. Ma tu… mi dicono che hai parlato con uno spettro dalla testa di volpe a Cobbs Creek. Che ne pensi? Era veramente uno spettro? Sii sincero ora, non hai alcun motivo per non esserlo.

— Mi hanno detto che si trattava di uno spirito della natura…

— Bah!

— Ma… be’, se non era uno dei tuoi mascherato, non riesco proprio a immaginare che altro potesse essere. A parte un vero e proprio spettro. Era un essere vivente, di questo ne sono certo, solido come me e te.

— Ahhh. — Il grugnito di Gregorian era difficile da interpretare, a metà strada fra un verso soddisfatto e uno di sofferenza. Poi, con fare casuale, il mago sfilò dalla cintura un coltello enorme. La lama era di acciaio brunito, e il manico di osso di fata. — Ora sarà pronto.

Gregorian si alzò e si incamminò verso Pouffe. Si accovacciò davanti a lui, quindi tagliò una lunga striscia di carne dalla fronte del vecchio negoziante. Uscì pochissimo sangue, quasi niente. La striscia era leggermente luminosa, non vivida e brillante come la pelle di Undine trattata con idrobatteri, ma fosforescente di fioca luminosità verdastra. Il mago se la infilò in bocca e prese a masticare rumorosamente. La luminosità verdastra si intravedeva fra i suoi denti.

— Ora i febbricianti sono al picco massimo. Dieci minuti prima sarebbero stati ancora infetti. Fra un’oretta, le tossine inizieranno a scindersi. — Sputò la striscia di carne sul proprio palmo, quindi la tagliò in due con il coltello. — Ecco. — Prese una metà e la portò alle labbra del burocrate. — Prendi. Mangia.

Il burocrate scostò il capo, disgustato.

— Mangia! — La carne non aveva alcun odore particolarmente forte, forse era stato soffocato dal fumo della legna. — Ti ho portato qui perché questo sacramento funziona molto meglio quando è condiviso. Se non prendi parte al rituale, non so proprio che cosa farmene di te. — Il burocrate non rispose. — Pensaci. Finché rimani in vita, hai speranza. Potrei essere colpito a morte da un meteorite. Potrebbe arrivare Korda con un distaccamento di marines. Chi può dirlo? Potrei anche cambiare idea. Quel che è certo è che con la morte si annulla qualsiasi possibilità. Apri la bocca.

Il burocrate ubbidì. La carne fredda venne premuta sulla sua lingua. Era gommosa. — Mastica. Mastica e non mandare giù niente finché non scompare da sola. — Il burocrate sentì salire un rigurgito di vomito, ma lo tenne a freno. La carne era poco saporita, ma quel poco sapore che aveva era decisamente caratteristico. Avrebbe sentito quel sapore in bocca per il resto della vita.

Gregorian gli diede una pacca amichevole sul ginocchio e tornò a sedersi.

— Dovresti essere grato. Ti ho appena insegnato una lezione importante. Non tutti hanno la possibilità di imparare che cosa sarebbero disposti a fare pur di rimanere in vita.

Il burocrate continuò a masticare. Sentiva la bocca intorpidita e gli girava la testa. — Mi sento strano.

— Hai mai odiato qualcuno? Intendo odiato veramente, fino al punto che la tua felicità e la tua stessa vita non hanno alcun valore, fino al punto che l’unico tuo scopo è di rovinare la vita di quella persona?

Ora stavano masticando in sincronia, all’unisono, in maniera rumorosa e umida. — No — sentì dire il burocrate. Era la sua stessa voce. Per qualche motivo indefinibile, ciò era alquanto strano. Stava perdendo completamente il senso del luogo; la sua consapevolezza si stava allargando su una zona sempre più vasta, tanto che non si sentiva specificamente lì dove era, ma si limitava a prendere parte a diversi livelli di possibilità. — Io invece sì — disse con la voce del mago.

Esterrefatto, aprì gli occhi, e si ritrovò a guardare il suo stesso volto.

Lo choc di quella rivelazione lo riportò di colpo nel suo corpo legittimo. — E chi odiavi così tanto? — riuscì ad annaspare. Di nuovo stava perdendo la sua identità. Sentì la risata di Gregorian, una risata selvaggia e malata, quasi disperata, e si rese conto che veniva da lui quanto dal mago. — Me stesso — disse, la sua voce profonda come un rombo alla base dello stomaco. — Me stesso, Dio, Korda, in proporzioni più o meno identiche. Non sono mai riuscito a operare una divisione precisa fra questi tre.

Il mago continuò a parlare. Costretto dall’effetto della droga, il burocrate sprofondò nelle sue parole fino al punto che l’ultima traccia di se stesso si sciolse e si dissipò completamente. L’individuazione si aprì a ventaglio sotto di lui.

Divenne Gregorian, si trasformò nel giovane mago molti anni prima, e si trovò in piedi davanti al suo padre di clonazione in una stanza poco illuminata del distretto ad alta gravità di Laputa.

Era teso sull’attenti, e si sentiva a disagio. Era arrivato in ritardo perché si era perso più di una volta per strada. Non possedeva le conoscenze di tutti gli altri per muoversi attraverso quel labirinto tri-dimensionale di corridoi con i suoi ampi viali che si dissolvevano in grovigli insensati e le sue rampe e scalinate che terminavano improvvisamente davanti a pareti lisce. L’ufficio in cui si trovava ora era tetro e opprimente, disseminato di inquietanti strutture monolitiche di pietra, e il giovane Gregorian era stupito dal fatto che i fuorimondo pagassero fior di quattrini per vivere in luoghi simili. Aveva qualcosa a che fare con l’inaccessibilità. Korda era incastonato in una scrivania davanti a lui.

Una scuola di pesci di mercurio attraversò la stanza, ma non erano altro che semplici proiezioni dei febbricianti, quindi li ignorò. Con l’angolo dell’occhio, osservò gli scaffali di luminosi fiori di vetro. In un campo gravitazionale come quello, sarebbe bastato sfiorarli per ridurli in polvere. Orchidee di un rosa acceso spuntavano da buchi praticati nel soffitto, il loro profumo simile a quello della carne marcescente.

Gregorian mantenne un atteggiamento rigidamente casuale, il suo volto una maschera sardonica. Ma in verità la figura di Korda lo intimidiva non poco. Gregorian era più giovane, più atletico, più forte e aveva riflessi assai più pronti di quanto non avesse mai avuto il suo predecessore. Ma quell’uomo grasso lo conosceva troppo bene, sia dentro che fuori.

— Una volta ho mangiato merda — disse Gregorian.

Korda stava scribacchiando qualcosa sulla sua scrivania. Emise un grugnito.

Nella stanza vi era anche una terza presenza, un surrogato permanente con indosso una tonaca denebiana e una maschera di ceramica bianca. Si chiamava Vasli, ed era presente nella funzione di consulente finanziario. Gregorian non amava quella creatura, poiché la sua aurea era nulla; non lasciava alcuna impronta emotiva nell’aria. Ogniqualvolta scostava lo sguardo, Vasli tendeva a scomparire nella mobilia.