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— Non fa niente — disse il burocrate. — Fallo andare a carponi.

Fra le provviste di Gregorian vi era anche un diagnostico automatico con una serie completa di medicamenti. Il burocrate passò il suo sangue attraverso un pulitore, prese un farmaco accentrante e si lavò la faccia, dopodiché si sentì mille volte meglio. Nonostante la scomparsa dei febbricianti e dei veleni della fatica, si sentiva ancora debolissimo, ma perlomeno era finalmente lucido. Portò una borraccia alla porta e si sciacquò la bocca diverse volte, sputando i residui nella strada sottostante.

Dopodiché, tornò dentro e accese il televisore. “È iniziato!” esclamò l’apparecchio. “Il fronte dell’onda ha appena colpito la costa! Se vi trovate sul pendio o nel Fan, vi esortiamo a…”

“Che vista meravigliosa!”

“… muovervi immediatamente! Si, è proprio incredibile. Uno spettacolo glorioso, l’acqua che si impenna alla luce dell’alba ingoiandosi la terra. Questo è l’ultimo avvertimento. Se vi trovate al di sotto della linea di guardia, partite immediatamente. Non avrete altre possibilità!”

— Capo? Gregorian ti vuole parlare.

— Davvero?

Il burocrate unì le mani dietro la schiena e si avvicinò alla finestra. Ora l’orizzonte era in movimento. Una linea sottile e increspata che si muoveva lentamente, nulla di tanto drammatico come ciò che stavano mostrando alla tivù. Eppure, il Tidewater stava finalmente venendo sepolto dalla massa d’acqua. Le maree del giubileo stavano facendo il loro ingresso. Sulla pianura sottostante, gli alberi incolonnati stormivano al vento, quello stesso vento che spazzava nell’aria le foglie color indaco, facendole sfrecciare silenziose davanti alla finestra schermata.

Nella vasca delle balene, appena davanti a lui, vi era Gregorian, inginocchiato. La valigetta lo aveva legato con le stesse catene di adamantino che aveva usato per il burocrate. Non poteva alzarsi in piedi e non aveva intenzione di sdraiarsi. I loro occhi si incontrarono. Il sistema nervoso di Gregorian era ancora sotto il controllo della valigetta. — Sentiamo.

— Non puoi fuggire da qui senza il mio aiuto — disse la valigetta con la voce calma di Gregorian.

— Qui sono al sicuro.

— Oh, certo, sopravviverai alle maree. Ma come farai ad andartene poi? Rimarrai incastrato su un’isoletta che nessuno troverà. Non hai cibo a sufficienza per resistere. E per lo più non conosci i codici di accesso per spedire un messaggio e farti mandare un’aeromobile.

— Tu invece li conosci? — Il burocrate alzò lo sguardo da Gregorian, portandolo dalla parte opposta del piazzale, dove la sua valigetta aveva appeso Pouffe a un gancio. Era il minimo che potesse fare per quell’uomo.

— Sì. — Una risata leggera, educata. — A quanto pare siamo a uno stallo. Io ho bisogno del tuo aiuto per sopravvivere, e tu hai bisogno del mio per fuggire. È evidente che occorre trovare un compromesso. Cosa proponi?

— Io? Io non propongo proprio nulla.

— E allora morirai!

— Immagino di sì.

Vi fu un lungo silenzio. Infine, Gregorian parlò di nuovo. — Non dirai sul serio?

— Aspetta e vedrai. — Il burocrate tornò davanti al televisore, si inginocchiò e cambiò i canali finché non trovò il suo programma preferito.

— Come osi giudicarmi? Non ne hai alcun diritto moralmente, e lo sai bene!

— Puoi ripetere, scusa?

— Secondo i tuoi stessi standard, ormai sei corrotto. Hai detto che non potevi usare tecnologia bandita. Hai detto a Veilleur che se l’avessi usata, non saresti stato meglio di qualunque criminale. Eppure l’hai tenuta di riserva per tutto il tempo, pronto a usarla in caso di necessità.

Il dramma stava giungendo al suo termine. Il giovane Byron era stato legato all’albero dell’arca del pazzo Ahab. La sua sirena attendeva con frenesia in una gabbia presso le paludi che le acque venissero ad annegarla. Sapendo che stava per morire, cantava.

— Ho mentito — disse il burocrate. — Ora stai zitto. Voglio sentire.

Non molto tempo dopo, la valigetta si fece nuovamente sentire. — Capo? È troppo orgoglioso per ammetterlo, ma so bene ciò che sta passando. Potrei ucciderlo adesso, sovraccaricando il suo sistema nervoso. Sarebbe una morte indolore.

Il burocrate stava riposando in un nido di morbidi cuscini ricamati con vivaci motivi dell’Arcipelago. Fissava lo schermo del televisore, immerso nella sua luce. Si sentiva incredibilmente stanco. Le immagini ormai non significavano più nulla per lui, non erano altro che un flusso insignificante di luce e di ombre. Si sentiva letteralmente svuotato.

Ogni volta che alzava lo sguardo, vedeva Gregorian che lo fissava con espressione furibonda. Se vi era qualcosa di vero in questa faccenda di poteri occulti, il mago non sarebbe morto solo. Il burocrate però, pur sentendo la potenza di quegli occhi, si rifiutava di incrociarne lo sguardo. E tantomeno permetteva alla sua valigetta di trasmettergli le parole del mago. Si rifiutava di ascoltarlo. Così almeno Gregorian non avrebbe avuto nessuna possibilità di convincerlo a cambiare idea all’ultimo momento.

— No — disse con tono tranquillo. — Penso che sia meglio così, non trovi?

Le maree stavano arrivando. La terra fremeva di premonizioni di oceano. I suoni trasportati dal sottosuolo venivano amplificati dalle cantine e dalle cavità sottostanti, lunghi e profondi muggiti e grandi sospiri sottomarini. Mostri sonici si facevano strada attraverso le ossa e lo stomaco del burocrate. La città intera scoppiettava di aspettativa. I puntelli di fibra di carbonio pulsavano, assorbendo le risonanze.

Il martello dell’oceano si stava avvicinando.

Quando sarebbe giunta la grande onda, piombando sulla città, la avrebbe fatta suonare tutta come una campana. Tutte le acque del mondo si sarebbero riunite assieme in un pugno di acciaio che avrebbe colpito con grande forza. Sentito da sotto, il colpo sarebbe apparso come la caduta della civiltà, come il culminare di tutti gli allagamenti e. i terremoti della storia. Era difficile immaginare che qualcosa potesse rimanere in piedi. Sarebbe stata la vittoria finale dell’oscurità.

E quando le acque si sarebbero finalmente calmate, Gregorian non sarebbe più esistito.

E allora, finalmente, il burocrate avrebbe potuto prendere un po’ di sonno.

14. Il giorno del giubileo

Il burocrate era seduto nella sala comandi, guardando l’ultimo episodio della sua teleserie. Le maree erano già passate, e la maggior parte dei personaggi erano morti.

Nel disastroso naufragio della nave di Ahab, solo due piccole figure erano sopravvissute, esauste, su un frammento di ponte. Una era Byron, il giovanotto che aveva amato, tradito, e che ora piangeva la donna del mare. I suoi occhi erano socchiusi, la sua bocca incrostata di sale. Aveva sofferto più di chiunque altro nel cast, era andato oltre la sofferenza e la disillusione. Eppure, nonostante la sua debolezza, era riuscito a salvare una bambina dal disastro.

La seconda figura era proprio la bambina, Eden. I suoi occhi si stagliavano luminosi come due gemme verdi dal volto emaciato. Le maree le avevano procurato uno choc che la aveva strappata al suo autismo, riportandola nuovamente alla vita. La bambina si alzò in piedi e indicò con un dito. — Guarda! — esclamò. — Terra!

Non era altro che un film, eppure il burocrate era felice che Eden fosse sopravvissuta. In qualche modo, ciò rendeva molto più sopportabile tutto il resto.

In quel momento, entrò nella stanza la sua valigetta. — Capo? È ora.

— Ebbene sì. — Si alzò in piedi, quindi si inginocchiò e spense definitivamente il televisore. Addio a tutta quella roba. — Fai strada.

Anelli di luce li guidarono lungo il corridoio. I sistemi di sicurezza, ancora attivi, li seguirono ronzando nei loro movimenti, si scambiarono segnali in codice e, in mancanza di un intervento umano, entrarono in modalità di attesa. E dato che quella base era stata progettata per teorici militari di alto grado, i sistemi di sicurezza erano stati programmati affinché, in casi simili, non venisse ostacolato alcun movimento.