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La porta si aprì.

Il cielo era di un azzurro incredibile. Caliban galleggiava a mezz’aria vicina all’orizzonte, piatta come un disco di carta, circondata dal suo anello di città bianco e sottile come la scia di una meteora. Uscirono all’aperto.

Il burocrate strinse gli occhi davanti alla luce del giorno. Il terrazzo era bianco e deserto. Le tempeste di quella settimana lo avevano ripulito completamente. Pouffe era scomparso senza lasciare tracce, come se non ci fosse mai stato. Di Gregorian non rimanevano altro che le catene.

Il mondo intero odorava di sale e di possibilità. L’oceano si estendeva all’infinito in tutte le direzioni, il suo trionfo sulla terra ormai completato. Era una cosa troppo vasta per assorbirla così di primo acchito. In piedi su quel frammento di pietra infinitesimale, il burocrate si sentiva piccolo ed esiliato. Gli dolevano gli occhi per lo sforzo di guardare senza comprendere.

— Da questa parte.

— Aspetta un attimo.

Prima delle maree, aveva visto l’oceano solo da altezze orbitali, escludendo quella volta nel corso del suo viaggio verso Ararat in cui lo aveva visto come una macchia distante all’orizzonte. Ora l’oceano lo circondava completamente, senza limiti, in costante movimento. Onde taglienti dalla cresta schiumosa balzavano verso l’alto e venivano risucchiate prima che si riuscisse a definirne la forma. I marosi si abbattevano sulle facciate degli edifici, proiettando nell’aria spruzzi d’acqua simili a pizzo bianco.

Per un fuorimondo, si trattava di una vista impossibile. La terra era diversa; i suoi flussi e i suoi movimenti erano impercettibili per l’occhio umano, e di conseguenza la sua totalità era molto più facile da afferrare, semplificare e comprendere. Ma l’oceano era tutta un’altra cosa. Era allo stesso tempo troppo semplice e troppo complesso per essere colto dalle percezioni nella sua totalità. Il burocrate si sentì turbato e mortificato.

— Non è che per caso hai cambiato idea? — domandò la valigetta con tono preoccupato.

— No, certo che no. — Il burocrate si riassettò, quindi fece cenno alla valigetta di fare strada. — Avevo solo bisogno di un po’ di tempo per adattarmi.

Ad Ararat, tutte le direzioni erano uguali. Camminando dal centro del complesso militare si giungeva inevitabilmente a un bordo sul quale si affacciava l’oceano. Si incamminarono verso il lato riparato dell’isoletta, passando attraverso vie tempestate di piccoli anemoni bianchi. Vedendoli arrivare, i trampolieri di mare presero il volo. Due uccelli ballerini stavano costruendo il loro nido. La vita del grande inverno stava già prendendo piede, colonizzando la città.

I gabbiani aleggiavano sopra le loro teste, neri come il peccato.

Gli edifici si diradarono per far spazio a una serie di antichi pontili da carico. Nei pavimenti di pietra erano permanentemente incise frecce gialle e luminosi segnali di carico e scarico. Più in là, non vi era altro che acqua. Qui si fermarono, ascoltando il dolce ritmo delle onde e il costante sibilo del vento. Erano entrambi posseduti da una specie di diffidenza condivisa, che fece in modo che nessuno dei due trovasse il coraggio di parlare per primo.

Infine, fu il burocrate a schiarirsi la gola. — Bene. — La sua voce gli parve falsa, troppo alta di tono e volutamente casuale. — Credo che sia venuto il momento di liberarti.

Nello sconvolgente epilogo delle maree, quando l’occasionale onda ancora si abbatteva sui punti più elevati della città, il burocrate si ritrovò incapace di parlare di quanto era appena accaduto. L’esperienza era stata troppo intensa e totalizzante per essere contenuta in un pensiero, figurarsi in parole. Era una cosa troppo vasta per essere contenuta in una sola mente.

Rimase in piedi, appoggiato con una mano alla parete della finestra. Il pavimento tremava, e le grida oltraggiate dei puntelli sotto sforzo risuonavano da mezzo chilometro più in basso. Le orecchie gli fischiavano ancora.

Qualcosa era morto in lui. Una tensione, uno scopo nella vita. Aveva perso tutta la volontà di tornare nella sua vecchia nicchia nel Palazzo dell’Arcano. Che ci pensasse qualcun altro a difendere quanto c’era di sacro e necessario. Che ci pensasse Philippe a svolgere i suoi compiti, lui era molto bravo in certe cose. In quanto al burocrate, non se la sentiva più di fare cose del genere, gli mancava lo stomaco.

Il burocrate toccò il vetro con la fronte. Freddo, impersonale. Ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva l’acqua che gli piombava addosso. L’immagine era ormai incisa permanentemente nella sua retina. Si sentiva come se stesse cadendo. E per quanto non fosse in grado di parlare di quanto era appena accaduto, non poteva nemmeno rimanere in silenzio. Sentiva il bisogno di riempirsi la bocca e le orecchie di suoni, di produrre parole, di spingere fuori l’esitante voce di Dio attraverso il verbo. Non aveva importanza ciò che avrebbe detto.

— Se potessi avere ciò che desideri — disse, e la domanda aleggiò nell’aria con la casualità e l’insignificanza di una farfalla — che cosa chiederesti?

La valigetta si allontanò con tre passetti rapidi. Che fosse stata influenzata anch’essa dalle maree? No, impossibile. Stava solo frapponendo una distanza di corretta deferenza nei suoi confronti. — Non ho desideri. Io sono un robot, e i robot esistono solo per adempiere ai bisogni degli esseri umani. Veniamo costruiti per questo scopo, e tu lo sai bene.

Sagome sfuocate rotolarono dentro di lui, si infransero senza un suono sulla finestra, quindi scomparvero. Mostri cuoiosi si sollevarono dagli abissi per morire a pochi centimetri dal suo volto. Dovette fare un certo sforzo per rifocalizzare la sua concentrazione sulla conversazione. — No. Non voglio sentire queste sciocchezze. Dimmi la verità. La verità. Questo è un ordine.

Per un lungo istante, l’apparecchio rimase immobile, ronzando fra sé. Se non lo avesse conosciuto, il burocrate avrebbe potuto pensare che non avrebbe mai più risposto a quella domanda. Infine parlò, con tono quasi timido. — Se potessi avere qualsiasi cosa, sceglierei di condurre una vita tutta mia. Una vita tranquilla. Mi infilerei in qualche recesso in cui non avrei bisogno di essere subordinato agli esseri umani. Dove non avrei bisogno di operare come una specie di antropomorfo artificiale. Sarei me stesso, qualunque cosa sia.

— E dove te ne andresti?

La valigetta apparve pensierosa, esitante. Era evidente che era la prima volta che rifletteva su simili dettagli. — Credo… credo che mi farei una casa sul fondo dell’oceano. Nelle fosse. Laggiù vi sono depositi minerali pressoché intoccati. Poi c’è un sistema di sfiatatoi vulcanici attivi che potrei sfruttare per ottenere energia. Laggiù non esistono altre forme di vita intelligente. Lascerei la terra e lo spazio agli umani. E le placche continentali le lascerei agli spettri… sempre ammesso che esistano ancora, intendo.

— Saresti solo.

— Costruirei altri robot come me. Darei vita a una nuova razza.

Il burocrate tentò di immaginarsi una civiltà nascosta di piccoli apparecchi indaffarati che vagavano per i fondali dell’oceano. Cittadine metalliche senza luce, con forme tozze e massicce per resistere alla schiacciante pressione delle acque. — Mi sembra una cosa piuttosto squallida e sgradevole — disse il burocrate. — Perché mai vorresti condurre una vita simile?

— Avrei la mia libertà.

— Libertà — ripeté il burocrate. — Che cos’è la libertà? — Un’onda si abbatté sulla città, mutando tutto, per poi ritirarsi e far tornare tutto come prima. La stanza illuminata dal sole che attraversava la finestra si oscurò quasi completamente, passando da un verde cupo a un nero pece per poi tornare al verde e poi di nuovo alla luce. Il mondo esterno era immerso nei flussi caotici. Esseri che morivano, esseri che prendevano vita, il tutto completamente al di fuori del suo controllo. Ma per lui nulla di tutto ciò aveva realmente importanza.