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Gardner Dozois

Dove non splende il sole

Robinson aveva guidato per quasi due giorni attraverso la Pennsylvania, fino alle sterili lande fuligginose del New Jersey, spingendo la macchina con brutale disperazione alla massima velocità e sfidando i propri limiti di resistenza fisica. Completamente esausto, aveva dovuto fare tappa in una cittadina costiera in rovina, piena di case in legno con i rivestimenti esterni lacerati e con pallidi visi che sbirciavano attraverso le imposte chiuse strettamente. Aveva guidato lentamente lungo strade deserte invase da una marea di giornali spiegazzati, cartacce, ed altri rifiuti che rotolavano e frusciavano sospinti dalla pungente brezza marina. Aveva deciso di fermarsi a dormire in una stazione di rifornimento deserta; ed era rimasto con gli sportelli ed i finestrini completamente chiusi, fissando la luna che faceva capolino da una pompa di benzina arrugginita e stringendo tra le mani il cric. Una volta aveva sognato squali con le gambe e, nel tentativo di sfuggire alle fauci spalancate, si era svegliato di soprassalto sbattendo la testa violentemente contro il soffitto; poi si era calmato, sbattendo le palpebre nel calore soffocante ed umido della macchina chiusa, rimanendo ad ascoltare l’oscurità famelica.

Nel chiarore rossastro di quel mattino, un’orda cenciosa di profughi di Atlanta si era riversata nella città, trascinando con sé un’ondata di relitti metallici. Aveva guidato tutto il giorno lungo il mare oleoso agitato, punteggiato di scorie come un grigio tappeto a brandelli, vagando in mezzo al terrore da una città devastata all’altra, guardando i cartelloni pubblicitari divelti e le porte dei negozi sbarrate.

Adesso era notte fonda e lui stava cominciando realmente ad accettare quello che era successo, ad accettarlo con le viscere e non solo con la mente, mentre la dura realtà gli trafiggeva lo stomaco come la lama di un coltello. L’autostrada secondaria su cui si trovava si restrinse, e seguì un tratto sopraelevato; Robinson rallentò per affrontare la curva, trasalendo al gemito del motore mentre scalava le marce. Seguì un lungo rettilineo ed egli premette di nuovo sull’acceleratore, avvertendo la risposta lamentosa e tremante della macchina. Per quanto reggerà questa carretta? pensò. Quanto durerà la benzina? Quanti chilometri ancora? Premette ancora inutilmente l’acceleratore, cercando di scacciare quell’altro inevitabile pensiero, di cancellare l’immagine che da giorni baluginava dietro le sue palpebre: l’immagine di una figura scomposta, distesa di traverso su di un mucchio di pietre, quel tenero corpo annerito e carbonizzato, la pelle lacerata e nera come la carta carbone, striata da rivoli di sangue coagulato…

Si morse le labbra fino a farle sanguinare. Anna, pensò, Gesù, Dolce Gesù, Anna… lo sfinimento stava di nuovo per sopraffarlo, un maglio felpato che lo isolava persino dal reale dolore dei propri nervi.

Sul lato destro della carreggiata, poco più avanti, c’era un ostacolo e si spostò sull’altra corsia per evitarlo. Dopo Filadelfia l’autostrada era stata bloccata da una massa di auto strombazzanti, ma lui conosceva molto bene la rete di strade secondarie e aveva potuto distanziare il branco. Ora le strade erano praticamente deserte. Chi aveva ancora un briciolo di buon senso era già sparito da un bel pezzo dalla circolazione.

Si affiancò al rottame, lo sorpassò. Era un furgoncino, rovesciato su di un fianco e sventrato dal fuoco. Un uomo giaceva riverso sull’asfalto, a cavallo della linea bianca. Se non fosse stato per il pallido luccichio delle mani e del viso, avrebbe potuto sembrare un fagotto di stracci abbandonato. C’erano macchie di sangue sull’asfalto consumato. Robinson si portò ancora di più sulla sinistra per non investire il corpo, sbandò e si rimise in carreggiata. Superato il furgone, ritornò nella propria corsia e accelerò di nuovo. Il furgoncino e l’uomo scivolarono dietro di lui, indugiarono per un attimo nello specchietto retrovisore, illuminati dai suoi fanalini posteriori, e poi vennero inghiottiti dall’oscurità.

Dopo alcune miglia, Robinson cominciò a crollare dal sonno, addormentandosi al volante per qualche frazione di secondo, per poi risvegliarsi scuotendo il capo e sbattendo le palpebre. Imprecando, spalancò completamente gli occhi e abbassò il finestrino. Il vento entrò ululando dalla fessura. L’aria era afosa, impregnata dal fumo del carbone e dai vapori chimici che soffocavano la parte settentrionale del New Jersey.

Con un riflesso automatico, Robinson si sporse verso la radio, la accese e cercò di sintonizzarsi su qualche stazione, aggrappandosi ciecamente a quel mondo invisibile in cerca di qualcuno che gli tenesse compagnia. L’unica risposta furono le scariche di energia statica. Quasi tutte le stazioni di Filadelfia e Pittsburgh non trasmettevano più; quelle zone erano state colpite duramente. L’ultima stazione di Chicago aveva interrotto le trasmissioni all’imbrunire, non appena erano stati segnalati degli scontri fuori dallo stadio. Per un po’, alcuni degli annunciatori avevano fatto riferimento a «forze ribelli», ma poi questa era stata evidentemente giudicata una cattiva propaganda, perché aveva ricominciato a chiamarli «sovversivi» e «anarchici isolati».

Per un attimo captò il segnale di una stazione di Boston, che trasmetteva un conciliante discorso di qualche autorità, ma anche questa scomparve sommersa dalle scariche e venne lentamente rimpiazzata da una stazione di Filadelfia che trasmetteva messaggi di emergenza. Non c’erano più stazioni locali. Probabilmente non c’era più neppure la televisione, non che questa gli mancasse molto. Erano mesi che non vedeva più un documentario o una trasmissione in diretta, ed anche ad Harrisburg, nei giorni che precedettero l’ultima fiammata, avevano completamente smesso di trasmettere notiziari e mandavano in onda solo filmetti comici e vecchi musical degli anni venti (figure allegre che ballavano in frac sui piani a coda, irreali come il delirium tremens nel bianco bagliore tremolante del televisore, con l’eco della musica metallica e delle risate registrate che riempivano la stanza come il grido di uccelli meccanici. Fuori, si udivano occasionali colpi di arma da fuoco…).

Alla fine si sintonizzò su di una stazione che trasmetteva ininterrottamente musica classica, soprattutto Mozart e Johann Strauss.

Guidava meccanicamente, ascoltando un pezzo di Dvorak che chissà come si era infilato tra Haydn e Il Danubio Blu. Assorto nella musica, la mente già confusa cullata dal rumore continuo dell’asfalto sotto le ruote, Robinson riuscì quasi a dimenticare…

Una minuscola stella rossa apparve all’orizzonte.

Robinson la guardò con indifferenza per un po’, prima di accorgersi che diventava sempre più grande; ebbe un attimo di incertezza, prima di capire di che cosa si trattasse, e allora avvertì una stretta allo stomaco.

Imprecò sottovoce, spaventato. Le marce stridettero, la macchina sobbalzò, rallentando. Spinse il freno per diminuire ancora la velocità. Una luce brillò proprio sotto la stella rossa e tinse di bianco la notte, accecandolo. Mormorò una bestemmia, sentì un vuoto allo stomaco e i muscoli delle gambe gli si irrigidirono per la paura.

Robinson spense il motore e lasciò che l’auto si fermasse lentamente. Il faro lo seguì, rimanendo puntato sul parabrezza. Socchiuse gli occhi per il bagliore, ammiccando. Le lacrime gli annebbiarono la vista e il faro si trasformò in una Stella di Davide che irradiava bianche lame di luce. Robinson trasalì e distolse lo sguardo, cercando di rimettere a fuoco l’immagine, ma non osò fare il minimo movimento. La macchina si fermò con un sussulto.

Sedeva immobile, le mani contratte sul volante, ascoltando i sibili acuti e gli scricchiolii metallici del motore che si raffreddava. Si udì il suono di una portiera sbattuta; qualcuno gridò un ordine inintelligibile e vi fu una secca risposta. Robinson guardò di traverso, cercando di scorgere quello che circondava quella nova in miniatura che era il faro. Un rumore di passi scricchiolanti sulla ghiaia. Una figura si avvicinò alla macchina, disegnando un profilo confuso ed indistinto davanti al parabrezza, una macchia pastosa di forma vagamente umana. Qualcosa baluginò, una lama di luce che ruotava nelle mani pastose, come se cercasse di fuggire. Robinson sentì gli occhi farsi pesanti. Si morse le labbra e rimase seduto immobile, ammiccando…