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«Mi ha chiesto di dirle che cosa significa governare» disse Paul. «E io le ho risposto: il comando di uno solo. E lei mi ha detto che ci sono cose che devo disimparare.»

Ha fatto centro, la vecchia, pensò Hawat, e col capo invitò Paul a continuare.

«Ha detto che un governante deve convincere, e non obbligare. Ha detto che deve servire il miglior caffè accanto al caminetto, per chiamare accanto a sé gli uomini migliori.»

«Come pensa che tuo padre abbia attirato uomini come Duncan e Gurney?» chiese Hawat.

Paul scrollò le spalle. «Poi ha aggiunto che un buon governante deve imparare la lingua del suo mondo, che è diversa per ogni mondo. Ho creduto che volesse dirmi, con questo, che non parlano Galach su Arrakis, ma non era questo il punto. Lei voleva dire, invece, il linguaggio delle rocce e delle cose che crescono, la lingua che non s’intende solo con le orecchie. E io le ho risposto che è proprio quello che il dottor Yueh chiama ’il Mistero della Vita’.»

Hawat sogghignò: «Come l’ha presa?»

«Penso che si sia infuriata. Ha detto che il Mistero della Vita non è un problema da risolvere, ma una realtà da sperimentare. Così le ho citato la Prima Legge del Mentat: ’Non si può capire un processo arrestandolo. La comprensione deve fluire insieme col processo, deve unirsi ad esso e fluire con esso.’ Questo parve soddisfarla.»

Sembra che si sia riavuto, pensò Hawat, ma quella vecchia strega lo ha spaventato. Perché mai l’ha fatto?

«Thufir» disse Paul, «pensi che Arrakis sia davvero così brutto?»

«Niente può essere così brutto» replicò Hawat, con un sorriso forzato. «Considera i Fremen, per esempio, il popolo rinnegato del deserto. Secondo una prima valutazione, posso dire che sono in molti; molti di più di quanti l’Impero non sospetti. C’è molta gente che vive lì, ragazzo, moltissima gente, e…» (Hawat avvicinò un dito nodoso all’occhio) «…e odiano gli Harkonnen con passione mortale. Non devi farti sfuggire una sola parola di tutto questo, ragazzo, te lo confido soltanto perché sono il migliore aiutante di tuo padre.»

«Mio padre mi ha parlato di Salusa Secundus» riprese Paul. «Sai, Thufir, sembra che sia molto simile ad Arrakis… forse non così brutto, ma molto simile.»

«Non sappiamo molto di Salusa Secundus, oggi» disse Hawat. «Solo com’era molto tempo fa… e nient’altro. Ma in linea di massima, hai ragione.»

«E i Fremen, ci aiuteranno?»

«È una possibilità.» Hawat si alzò in piedi. «Oggi, io parto per Arrakis. Abbi cura di te, Paul. Fallo per un vecchio che ti vuole bene… vuoi? Vieni pure qui, ma, da bravo, non sederti mai con la schiena alla porta. Non credo che ci sia alcun pericolo al castello: è solo un’abitudine che ti voglio far prendere.»

Anche Paul si alzò; fece il giro della tavola. «Parti oggi?»

«Oggi. E domani anche tu. La prossima volta c’incontreremo sul nuovo mondo» strinse il braccio destro di Paul all’altezza del bicipite. «Non dimenticare di tener libero il braccio del coltello, eh? E lo scudo sempre a piena carica.»

Lasciò il braccio, batté la mano sulla spalla di Paul, si girò e in pochi passi raggiunse la porta.

«Thufir!» chiamò Paul.

Hawat si arrestò davanti alla porta, e si voltò.

«Non voltare mai la schiena a nessuna porta!»

Sul vecchio volto si disegnò un ampio sorriso. «Non lo farò, ragazzo, puoi star sicuro.» E se n’era già andato, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.

Paul si sedette dov’era Hawat, prima, e mise in ordine le carte. Ancora un solo giorno qui, disse tra sé. Si guardò intorno. Stiamo per partire. All’improvviso, l’idea della partenza fu qualcosa di concreto, come non lo era mai stata prima. Si ricordò di un’altra cosa che la vecchia gli aveva detto, sul fatto che un mondo è la somma di molte cose: la gente, la sporcizia, le cose che crescono, le lune, le maree, i soli; quella somma dal totale sconosciuto che è la natura. Qualcosa d’indistinto che, ora, non aveva alcun senso. Si chiese: Ma che cos’è, l’«ora»?

La porta davanti a Paul si aprì con un tonfo, e un uomo brutto e massiccio entrò, traballando sotto una bracciata di armi.

«Ehi, Gurney Halleck» esclamò Paul, «sei tu il nuovo maestro d’armi?»

Halleck chiuse la porta con un calcio. «So che preferiresti giocare con me» replicò. Guardò in giro per la stanza, osservando che gli uomini di Hawat l’avevano già controllata da cima a fondo, rendendola sicura per l’erede del Duca. I segnali in codice, quasi impercettibili, erano tracciati dovunque.

Paul fissò il brutto uomo traballante che si rimetteva in moto verso il tavolo d’addestramento col suo carico d’armi, e vide il baliset a nove corde che Gurney portava a tracolla e il multiplettro infilato tra le corde, alla cima della tastiera.

Halleck lasciò cadere le armi sul tavolo d’addestramento e le mise in fila: le spade, i pugnali, i kindjal, gli storditoli a scarica lenta, le cinture scudo.

Si voltò, sorridendo in distanza, e la cicatrice violacea della liana indelebilis gli vibrò sulla mascella.

«Così, non mi dici neppure buongiorno, brutto diavoletto» disse Halleck. «Che tipo di freccia hai piantato nel cuore del vecchio Hawat? Mi è passato accanto, nel corridoio, come se si precipitasse ai funerali del suo peggiore nemico.»

Paul sogghignò; fra tutti gli uomini di suo padre, Gurney era quello che gli piaceva di più. Conosceva il carattere dell’uomo e le sue diavolerie, il suo umorismo; era per lui un amico, più che una spada mercenaria al suo servizio.

Halleck si sfilò il baliset dalle spalle e cominciò ad accordarlo. «Se tu non vuoi parlare, neppure io parlerò.»

Paul si alzò e attraversò la stanza gridando: «Ehi, Gurney, vieni per la musica quando invece sarebbe ora di allenarci?»

«Manchiamo di rispetto ai nostri vecchi, oggi?» replicò Halleck. Provò una corda dello strumento, e annuì.

«Dov’è Duncan Idaho?» chiese Paul. «Non dovrebbe essere qui a insegnarmi l’uso delle armi?»

«Duncan è partito alla testa della seconda ondata per Arrakis» disse Halleck. «Ti è rimasto soltanto il povero Gurney, il quale è appena reduce da un combattimento e brama soltanto un po’ di musica.»

Toccò un’altra corda, ne ascoltò il suono e sorrise. «Abbiamo tenuto consiglio: visto che sei un combattente con così scarse qualità, è molto meglio insegnarti la musica. Almeno non sprecherai del tutto la tua vita.»

«Cantami allora una canzone» ribatté Paul. «Così almeno saprò come non si deve cantare!»

«Ah!» Gurney scoppiò a ridere, poi si precipitò a cantare «Le ragazze galaciane», mentre il suo multiplettro correva come una macchia confusa sulle corde:

«Oh-oh-oooh, le ragazze galaciane Lo faranno per le perle, Quelle di Arrakis per l’acqua! Ma se cerchi una donna che ti consumi come fiamma, Prova una ragazza di Caladan!»

«Niente male, per una mano così maldestra col plettro!» disse Paul. «Ma se mia madre ti sentisse cantare una simile canzone nel castello, ti taglierebbe le orecchie per adornare le mura.»

Gurney si tirò l’orecchio sinistro. «Sarebbe un ornamento assai povero, considerando quanto sono rovinate per avere ascoltato, dai buchi della serratura, un certo giovanotto che provava strane canzoni sul baliset!»

«Qualcuno ha dimenticato cosa vuol dire trovarsi il letto pieno di sabbia» replicò Paul. Tirò fuori dal mucchio una cintura scudo e l’allacciò rapidamente alla vita. «Allora, battiamoci!»