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Elminster notò anche altri regali: un matterello robusto e un grembiule nuovo giacevano sul tappeto dalla parte di Hannibur… e l’impugnatura di un pugnale fuoriusciva, come un occhio ammiccante, da sotto il cuscino di Shandathe.

Con cautela, depose il suo dono nuziale tra loro. Il fianco morbido di lei e quello peloso dell’uomo erano quasi attaccati, e ci volle tutta la sua abilità di ladro per evitare qualsiasi tintinnio mentre rovesciava le monete in una distesa d’oro scintillante da un capo all’altro del letto. Quand’ebbe ammassato tutti i reali che riuscì, ne rimanevano ancora una decina nel sacco. Appoggiò delicatamente l’ultimo dei suoi doni di nozze tardivi sul ventre di Shandathe, e se ne andò frettolosamente quando il contatto col metallo freddo la indusse a muoversi.

Selûne era alta nel cielo blu intenso sopra Hastarl, mentre Elminster, in piedi su un tetto, guardava oltre la strada vuota e silenziosa la facciata cadente del tempio abbandonato di Mystra.

Il luogo era buio e decadente, e dal suo punto d’osservazione El poté vedere che la porta era chiusa con un imponente chiavistello. A quanto pareva, i maghi non volevano che qualcuno ad Hastarl adorasse la Signora della Magia, in modo che loro potessero farlo in tutta tranquillità nella torre all’interno di Athalgard. Eppure, non avevano osato dissacrare il tempio della dea.

Forse, il loro potere era radicato in esso, e colpirlo avrebbe potuto minare la loro supremazia sulla magia e indebolire la loro morsa sul regno. Forse El poteva forzare la mano di Mystra, come lei aveva forzato la sua quando aveva permesso che i suoi genitori venissero uccisi. O forse, ammise a se stesso mentre fissava il tempio, era solo stanco di non fare nulla di concreto, di sprecare i suoi giorni sui tetti, aspettando occasioni per rubare questo o quel gingillo. I maghi non avrebbero osato dissacrare il tempio di Mystra, ma El sì. Quella notte. Il mondo, o almeno Athalantar, sarebbe stato un luogo migliore senza la magia.

La distruzione di un tempio, tuttavia, era ben lungi dall’essere sufficiente. Ma forse, avrebbe attirato la maledizione di Mystra sulla città, cosicché nessun mago avrebbe potuto esercitare la magia all’interno delle sue mura. O forse il tempio ospitava qualche oggetto magico che avrebbe potuto utilizzare contro i maghi. O, più semplicemente, nascondeva soltanto la sua morte. Qualunque fosse stato l’esito, sarebbe stato ben accetto.

Elminster osservò attentamente la vernice scrostata e sbiadita e i doccioni di pietra immobili, a forma di pipistrello, che adornavano entrambi gli angoli anteriori del tetto. Erano aggrappati alla cima dei pilastri del tempio con molti artigli, e avevano la bocca aperta, famelica. Non emisero alcun bagliore alla sua vista da mago, ma forse i doccioni magici cantati dai menestrelli non emanavano luce… Tutto ciò che di magico riusciva a vedere era molto più in basso, e visibile a tutti. Sulle porte del tempio, a lettere debolmente luminescenti, si leggevano le parole «Io sono l’Incantesimo degli Incantesimi».

Elminster scosse il capo, sospirò, e iniziò a calarsi dal tetto. La vendetta, a quanto pareva, era una missione impegnativa.

Il lucchetto non presentava alcun incantesimo e si arrese facilmente al suo arnese metallico; Farl era stato un buon maestro. El scrutò la strada deserta un’ultima volta, e poi socchiuse la porta, rimase per qualche istante sulla soglia per abituarsi all’oscurità, e scivolò all’interno del tempio, col pugnale pronto.

Polvere e oscurità vuota. Elminster guardò in tutte le direzioni, ma nel tempio di Mystra sembrava non esserci arredamento, solo colonne di pietra. Con circospezione, si spostò di lato per allontanarsi dalla porta – solitamente le trappole erano poste davanti a essa – e fece alcuni passi avanti.

In quel luogo c’era qualcosa che non andava. Oh, certo, si aspettava di sentirsi osservato, di percepire la pelle accapponarsi per la tensione sibilante di incantesimi latenti intorno a lui… e tutto ciò accadde. Ma vi era dell’altro, tuttavia, qualcosa che…

Naturalmente: un luogo grande e vuoto come quello avrebbe dovuto fare eco ai rumori che lui faceva. Ma non si udiva nulla. Elminster aprì una tasca della cintura, prese uno dei piselli secchi che ogni ladro porta con sé per dissuadere eventuali inseguitori, e lo lanciò davanti a lui nell’oscurità.

Non lo udì toccare il pavimento. El deglutì e fece un cauto passo avanti. Si trovava in un vestibolo, separato da una grande stanza aperta mediante una fila di imponenti pilastri di pietra levigata… cilindri normali, da quanto poteva vedere. Nulla si muoveva nella spessa coltre di polvere che ricopriva il pavimento. El diede un’ultima occhiata alla porta che aveva chiuso dietro di sé, e poi si incamminò nell’oscurità.

La stanza enorme era circolare e non si riusciva a vedere il soffitto, costituito probabilmente dal tetto stesso che El aveva visto dall’esterno. Al centro si ergeva un altare circolare di pietra, e tutt’intorno vi erano tre file di balconi. La camera era buia, vuota, e silenziosa.

Non vi era nulla di più. Niente da dissacrare. Nessun accolito.

La porta dietro di lui si aprì improvvisamente, e quando vide entrare uomini con le torce, Elminster corse verso il retro del tempio, cercando pilastri dietro cui nascondersi. Erano in tanti: guardie, almeno due pattuglie, con le lance in mano.

«Sparpagliatevi», esclamò una voce fredda, «e cercate. Nessuno osa entrare nel tempio di Mystra solo per gioco».

L’uomo avanzò, sollevò una mano, e disegnò una sorta di saluto o di gesto rispettoso verso l’altare. Poi affermò con tranquillità: «Ci vuole un po’ di luce», e alle sue parole, nonostante non avesse pronunciato nessun incantesimo, le pietre attorno a Elminster iniziarono a risplendere.

E così tutte le altre, finché un bagliore perlaceo non riempì la stanza, rivelando ai presenti la figura del giovane ladro. I «presenti», in quel caso, erano più di venti guardie, che avanzavano attraverso la stanza con facce arcigne e armi impazienti. L’uomo che aveva parlato stava nel mezzo ed esclamò: «Solo un ladro. Abbassate le armi».

«Che facciamo se scappa, signore?»

L’uomo con la tunica sorrise e rispose: «La mia magia lo obbligherà ad andare dove voglio io, e da nessun’altra parte».

Fece un gesto, ed Elminster avvertì uno strattone improvviso alle estremità… una sensazione di formicolio e d’intorpidimento, simile a quella provata in quel giorno terribile nella prateria sopra Heldon, molto tempo fa. Il corpo non gli apparteneva più, e fu obbligato, in preda a una disperazione nauseante, a voltarsi e a procedere verso gli uomini.

No, verso l’altare. Un blocco circolare di pietra nuda, privo di qualsiasi decorazione. I soldati sollevarono le lance e lo accerchiarono.

«Secondo la legge, chi dissacra i templi deve essere messo a morte», grugnì un soldato anziano, «sul posto».

«Esattamente», gli fece eco il mago, e sorrise nuovamente. «Il luogo, tuttavia, lo sceglierò io. Quando questo stupido raggiungerà l’altare, potrete scagliare le vostre lance. Il sangue fresco sull’altare di Mystra mi consentirà di fare un incantesimo che da tempo desideravo provare».

Elminster continuava il suo cammino verso l’altare, furioso dentro di sé. Era stato uno sciocco a entrare nel tempio. Se lo meritava. La morte avrebbe posto termine alla sua lotta futile contro i maghi. Vi chiedo perdono, padre… madre… Elminster si mise a correre, sperando che ciò lo avrebbe in qualche modo liberato, sapendo di non poter fare nient’altro. Almeno poteva morire con la consapevolezza di aver tentato il possibile.

Il mago si limitò a ridere e ad arcuare un dito. La corsa divenne un piccolo trotto finché El non si ritrovò davanti all’altare e fu costretto a voltarsi nuovamente, faccia a faccia con l’uomo.

Questi si inchinò. «I miei omaggi, ladro. Io sono Lord Ildru, mago di Athalantar. Puoi parlare. Chi sei?»

Elminster scoprì che poteva muovere la bocca. «Ciò che ha detto, Signore», rispose freddamente, «un ladro».