El lo guardò, e poi ubbidì, domandandosi cosa sarebbe accaduto. Inconsciamente, si coprì le nudità con le mani.
L’elfo sembrò sorridere. «Ho veduto altre donne prima d’ora… e ormai ho visto interamente anche te». Si acquattò silenziosamente e continuò, «dammi il tuo piede».
El lo guardò meravigliata, poi sollevò il piede sinistro. L’elfo lo prese fra le sue mani, e con un tocco lieve come una piuma, alleviò lentamente il suo dolore. El rimase attonita.
«Ora il destro», le ordinò semplicemente. La ragazza lasciò cadere il piede guarito e gli porse l’altro. Di nuovo il dolore svanì. «Hai dato sangue alla foresta», spiegò, «il che soddisfa un rituale che molti considerano spiacevole». La presa sul suo tallone divenne più forte, poi l’elfo emise un rumore strano e lasciò ricadere il piede.
Un attimo dopo, muovendosi come un liquido che scorre silenzioso, l’elfo era inginocchiato accanto alla sua testa. «Permetti», esclamò, e aggiunse, «rimani immobile». Elmara percepì il tocco leggero delle sue dita sugli occhi, ed ecco che lentamente, molto lentamente, il dolore nella sua testa diminuì, per scomparire del tutto.
Insieme a esso svanì anche la stanchezza, e si sentì improvvisamente vigile, zelante e sveglia. «Che – grazie, signore – che cosa avete fatto?»
«Varie cose. Ho usato magia elementare, ciò che tu devi imparare come prima cosa. E poi non mi piace essere chiamato “signore”, vorrei che mi chiamassi “Braer” e che mi vedessi come una persona, non come una sorta di mostro magico». Le parole vennero sussurrate al suo orecchio, ma Elmara sentì che la sua risposta era molto importante.
Sollevò lentamente la testa, e vide quegli occhi che la fissavano a un palmo di distanza. «Per favore perdonami, Braer. Vorrai essere mio amico?» Impulsivamente si protese e baciò il volto che intravedeva appena. Gli occhi dell’elfo brillarono nei suoi quando le sue labbra lo sfiorarono, un naso adunco e ossuto.
Braer non si ritrasse. Le sue labbra non toccarono quelle della donna, ma un attimo dopo Elmara sentì le dita morbide accarezzarle il mento. «Così va meglio, figlia di un principe. Ora dormi».
El si sentì precipitare in un vuoto di tiepida oscurità, ancora prima di potersi chiedere come facesse Braer a sapere che suo padre era stato un principe… forse, riuscì tuttavia a pensare, mentre nebbie sussurranti le offuscavano la mente, tutta Faerûn lo sapeva…
«Hai iniziato come tutti i principianti: intimorita dalla magia. Poi hai imparato a temerla, e a odiare tutti coloro che la possiedono, e successivamente hai compreso che è un’arma troppo potente per essere ignorata. Allora, padroneggiarla o trovare una difesa contro di essa è diventata una necessità».
Braer rimase in silenzio e si protese, osservando attentamente magiche fiammelle blu che danzavano sulla punta delle dita di Elmara. Fece un gesto, e ubbidientemente la giovane le fece salire e scendere, un dito per volta.
«Ti chiederai, ora, perché ho sprecato tanta parte della tua breve vita con giochetti da bambini», esclamò Braer con fermezza. «Non è per farti familiarizzare con la magia, quello l’hai già fatto. È semplicemente per fartela amare per quello che è, non per ciò che puoi fare con essa».
«Perché», domandò Elmara alla maniera degli elfi, il fuoco riflesso danzante nei suoi occhi quando i loro sguardi si incontrarono, «un uomo o una donna dovrebbero amare la magia?»
Il suo maestro rimase in silenzio, come accadeva un po’ troppo spesso per i suoi gusti. Si guardarono negli occhi, finché la ragazza aggiunse: «Potrei pensare che l’amore per essa induca gli uomini a diventare curvi in stanze anguste, a isolarsi e diventare arcigni, oppure a impazzire nel rincorrere un qualche incantesimo inafferrabile o qualche dettaglio, sprecando in tal modo la loro vita».
«Alcune volte ciò accade», confermò Braer. «Ma l’amore per la magia è necessario per coloro che adorano Mystra – per i sacerdoti della dea, se vuoi, sebbene molti non vedano alcuna differenza fra essi e i maghi – non tanto per i maghi. Bisogna amare la magia se la si vuole venerare».
Elmara aggrottò la fronte. Nella sua chioma lunga, folta e ribelle vi erano ora alcuni capelli grigi; aveva studiato la magia per due inverni al fianco di Braer, pregando Mystra ogni sera… senza risposta. Hastarl e la sua vita da ladro le sembravano un sogno lontano, ma riusciva ancora a ricordare i volti dei maghi che aveva visto.
«Alcuni adorano per paura. Ciò ne sminuisce forse il rispetto?»
L’elfo annuì. «Sì», rispose semplicemente, «anche se non se ne rendono conto». Si alzò, leggiadro e silenzioso come sempre. «Ora soffoca quel fuoco e aiutami a trovare la cena».
Si incamminò fra gli alberi, sapendo che la donna avrebbe fatto altrettanto. Elmara si alzò, sorrise lievemente, e lo seguì. Trascorrevano le giornate a parlare mentre lei esercitava la magia sotto la sua guida, e a raccogliere cibo nella foresta. Una volta l’elfo le aveva mostrato come assumere le sembianze di un lupo, poi si era lanciato all’inseguimento di un cervo, con lei che lo seguiva incespicando. In tutti quei giorni trascorsi insieme, El non l’aveva visto fare altro che guidarla, sebbene la lasciasse ogni notte e non tornasse fino all’alba. Sceglieva sempre lui il luogo in cui dormire, e la sua vista da maga le diceva che attorno a lei si creava una sorta di anello magico protettivo.
Braer non sembrava mai stanco, o sporco, o tanto meno impaziente. Il suo garbo era imperturbabile, e non vi fu mai giorno che non si fosse presentato. Non vide altri elfi, né altre creature, sebbene una volta le avesse confermato che si trovavano effettivamente nella Grande Foresta, la dimora presunta del regno di elfi più grande di tutta Faerûn.
La prima mattina nella foresta, Braer le aveva portato una veste grezza di pelle animale, stivali alti, lucenti, di una comodità inaspettata, una cinghia per legare la Spada del Leone intorno al collo (la teneva avvolta in una pelle per evitare di ferirsi il petto), e una sorta di paletta per scavare buchi per i propri bisogni. Per lavarsi, si sfregava con foglie e muschio e si risciacquava nelle piccole pozze e nei rivoli che sembravano costellare quella foresta infinita. Quando commentò che sembravano trovare acqua dietro ogni collina o in ogni gola, Braer aveva annuito e le aveva risposto: «Come per magia».
Quel ricordo sfiorò improvvisamente la mente di Elmara. Guardò davanti a sé l’elfo che scivolava tra gli alberi come un’ombra silenziosa, e improvvisamente si mise a correre per raggiungerlo. Come sempre quando aumentava il passo, rami e foglie scricchiolavano e frusciavano sotto i suoi piedi. Braer si voltò e la guardò accigliato.
El fece altrettanto, e gli porse la domanda che era sorta poco prima nella sua mente: «Braer, perché gli elfi amano la magia?»
Per un attimo fugace, un ghigno di esultanza illuminò il volto dell’elfo. Poi scomparve, e la sua faccia riacquistò l’espressione solita, calma e interessata. El, tuttavia, era certa di aver visto quello sguardo compiaciuto, e il suo cuore si risollevò. Le parole dell’elfo la riempirono di gioia. «Ah… ora inizi a pensare, e a fare le domande giuste. Posso iniziare a insegnarti». Si voltò e continuò a camminare.
«Iniziare a insegnarmi?» domandò Elmara indignata rivolgendosi all’elfo di schiena. «E che cosa avresti fatto nei due anni appena trascorsi?»
«Ho sprecato molto tempo», rispose con tranquillità, rivolto agli alberi di fronte a lui, e il cuore della donna si strinse.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, e scoppiò a piangere, cadendo sulle ginocchia. Pianse a lungo, sentendosi sola, perduta, inutile, e quando ebbe esaurito tutte le lacrime, si mise a sedere a fatica, e si guardò intorno. Era sola.