«Braer!» gridò. «Braer! Dove sei?» Il suo grido echeggiò tra gli alberi, ma non si udì risposta. Si accasciò nuovamente, e sussurrò: «Mystra, aiutami. Mystra… aiutami!»
Si stava facendo buio. Elmara guardò ansiosamente in tutte le direzioni. Si trovava in una parte di foresta che non aveva mai visto. Con improvvisa urgenza evocò un fuoco magico, e sollevò la sua mano ardente affinché le facesse da lanterna. Gli alberi attorno a lei sembrarono frusciare e scuotersi per un momento, ma poi ripiombarono in un silenzio teso, vigile.
«Braer», esclamò nell’oscurità. «Per favore… torna indietro!»
Un albero vicino ondeggiò e si inchinò, poi fece un passo avanti. Era Baerithryn e aveva lo sguardo triste. «Mi perdoni, Elmara?»
Elmara gli corse incontro e lo abbracciò, singhiozzando. «Dove sei andato? Oh, Braer, che cos’ho fatto?»
«Mi dispiace, Signora. Le mie parole non intendevano essere un giudizio». L’elfo la tenne fra le sue braccia delicatamente, ma con fermezza, cullandola lievemente da una parte e dall’altra, come fosse un bambino da consolare. Con tenerezza infinita, le sue mani le accarezzarono i lunghi capelli aggrovigliati.
Elmara tirò indietro la testa, le lacrime scintillanti sulle sue guance. «Ma tu sei andato via!»
«Sembravi aver bisogno di un po’ di tempo per addolorarti… uno sfogo», si scusò l’elfo a voce bassa. «Non mi sembrava giusto soffocare ciò che provavi. Inoltre, qualche volta le cose devono essere affrontate e combattute da soli».
La prese per le spalle e l’allontanò delicatamente, fino a poterla guardare negli occhi. Poi sorrise e sollevò una mano, improvvisamente comparve una ciotola fumante, che emanò intorno a loro un profumo divino di selvaggina bollita. «Ti va di cenare?»
Elmara sorrise debolmente e annuì. Braer roteò l’altra mano, e un calice d’argento apparve dal nulla. Glielo porse con gesto elegante. Quando El lo afferrò, Braer effettuò un’altra rotazione ampia della mano, e questa volta comparvero due forchette e due coltelli decorati. Le fece segno di sedersi.
Elamara scoprì di essere molto affamata. Le otarde della foresta erano state cotte in una salsa di funghi e avevano un sapore delizioso e il calice si rivelò colmo del miglior vino di menta che avesse mai bevuto, incredibilmente chiaro e corposo. Divorò tutto; Braer sorrideva e, mentre la osservava, scosse il capo più di una volta.
Quand’ebbe terminato, un ulteriore svolazzo della mano dell’elfo produsse una ciotola di acqua acetata calda e un panno morbido di lino perché la donna potesse lavarsi la faccia e le mani. Mentre si puliva il grasso dal mento, vide che la sua espressione grave era tornata.
«Ti chiedo nuovamente, Elmara: mi perdoni? Ti ho fatto un torto».
«Ti perdono, naturalmente». El allungò la mano appena lavata e strinse una delle sue.
Braer guardò le loro mani, poi di nuovo il volto di lei. «Ti ho fatto ciò che noi della foresta consideriamo una cosa cattiva: ti ho giudicata male. Non volevo sconvolgerti… né desideravo peggiorare le cose lasciandoti sola nel tuo dolore. Ti ricordi che cosa stavamo dicendo?»
Elmara lo fissò. «Sì, che avevi sprecato molto tempo nelle due stagioni passate, e che solo ora potevi cominciare a insegnarmi».
Braer annuì. «Quale domanda mi hai fatto, affinché io rispondessi in quel modo?»
El aggrottò le sopracciglia, poi rispose lentamente, «Ti ho chiesto perché gli elfi amano la magia».
Braer assentì col capo. Agitò una mano e tutte le stoviglie della cena scomparvero, e un anello di fuoco color blu intenso li avvolse improvvisamente. Incrociò le gambe e chiese: «Te la senti di parlare tutta la notte?»
«Naturalmente… perché?», domandò El un po’ perplessa.
«Ci sono alcune cose che dovresti sapere… e sei finalmente pronta per ascoltare».
Elmara lo guardò negli occhi e si protese. «Allora parla», gli sussurrò ansiosamente.
Braer sorrise. «Per rispondere direttamente, per una volta, a una delle tue domande: noi amiamo la magia perché amiamo la vita. Essa è l’energia vitale di Faerûn, ragazza, raccolta nella sua forma grezza e utilizzata per creare effetti specifici da coloro che ne conoscono il modo. Gli elfi, e anche il Popolo Robusto, che dimora nelle profondità della roccia, sotto di noi, vivono a stretto contatto con la terra… sono parte integrante di essa, e in perfetto equilibrio con la natura. Noi ci riproduciamo in numero non superiore a quello che la terra può sopportare e forgiamo la nostra vita in base a ciò che essa può sostenere. Perdonami, ma gli umani sono diversi».
La donna annuì e gli fece cenno di continuare.
Braer le rivolse nuovamente lo sguardo e continuò: «Come gli orchi, gli uomini sanno fare al meglio quattro cose: riprodursi troppo rapidamente; bramare tutto ciò che li circonda; distruggere ciò che ostacola i propri desideri e dominare quello che non possono o non si curano di distruggere».
Elmara continuò a fissarlo. Il suo volto era pallido ma, nuovamente, con un gesto lo invitò a proseguire.
«Parole dure, lo so», riconobbe a bassa voce l’elfo, «ma questo è ciò che i tuoi simili rappresentano per noi. Gli uomini cercano di cambiare Faerûn a loro piacimento. Se noi – o qualsiasi altro – li ostacoliamo, veniamo eliminati. Gli uomini sono rapidi e intelligenti – questo sì – e sembrano imbattersi in idee e modi nuovi più spesso di altre creature… ma per noi, e per la terra, rappresentano un pericolo strisciante. Una malattia subdola che corrode questa foresta e altre parti intatte del regno… e noi con esso. Tu sei la prima della tua razza a essere tollerata nelle profondità di questo bosco per un periodo tanto lungo e vi sono alcuni tra il mio popolo che ti preferirebbero morta, concime per gli alberi».
Elmara lo fissò silenziosamente, il volto bianco e gli occhi incupiti.
Braer sorrise lievemente, e aggiunse: «La morte è una meta poco ambita dalla tua razza, ma più lodevole di molte altre che gli uomini perseguono».
La donna emise un sospiro lungo e tremolante, e domandò: «Perché… mi tollerate?»
L’elfo allungò esitante una mano e strinse una delle sue, proprio come lei aveva fatto poco prima. «Per semplice rispetto della Signora mi sono impegnato a guidarti», rispose, «e a trasformarti, in modo da arrecarci il minor danno possibile, negli anni, se è volontà degli dei che tu viva».
Il suo sorriso divenne più ampio. «Io ho imparato a conoscerti e a rispettarti. Conosco la storia della tua vita, Elminster Aumar, principe di Athalantar. So che cosa speri di fare – e non sarebbe prudente non aiutare un individuo votato a combattere i nostri nemici più potenti e più prossimi, i signori maghi. Il tuo carattere – e in particolare la tua forza nell’accantonare l’odio per la magia al fine di servire la Signora, e il non aver perso il senno quando ti ha trasformato in una donna senza avvertimento – ha reso il mio compito molto più che un dovere o una necessità; tu lo hai trasformato in un piacere».
Elmara deglutì, gli occhi le si riempirono di lacrime, che subito le scivolarono lungo le guance. «Tu-tu sei la persona più gentile e più paziente che abbia mai conosciuto», gli sussurrò. «Ti prego perdonami per aver pianto, prima».
Braer le picchiettò la mano. «Era colpa mia. Per rispondere alla domanda che hai appena pensato: Mystra ti ha reso donna sia per nasconderti dai signori maghi sia per farti percepire il legame tra la magia, la terra, e la vita; le donne riescono a percepirlo meglio degli uomini. Nei giorni a venire, ti posso mostrare come percepire e lavorare con quel legame».
«Riesci a leggere i miei pensieri?», gridò Elmara, ritraendo bruscamente la mano. «Allora perché, per tutti gli dei, non mi hai semplicemente detto ciò che avevo bisogno di sapere?»
Braer scosse il capo. «Riesco a leggere il pensiero solo se carico di emozioni forti, e quando sono molto vicino. Inoltre, pochi sono in grado di imparare veramente se ogni loro pensiero frivolo viene soddisfatto in un istante. Non si prendono la briga di pensare o di ricordare, ma diventano dipendenti dalla persona che li guida».