L’elfo sorrise. «Ah, ma devi farlo». Poi il suo sorriso scomparve e aggiunse: «E prima che tu vada, vorrei vedere quell’incantesimo lanciato per una volta come si deve!»
Elmara sospirò. «È solo un incantesimo con cui ho qualche problema, uno tra – quanti sono? – più di quaranta?»
Braer inarcò le sopracciglia e sollevò contemporaneamente le mani. «“Solo un incantesimo”? Fanciulla, fanciulla. Niente dovrebbe essere per te solo un incantesimo. Venerare la magia, ricordi? Oppure ai tuoi occhi rappresenta solo una spada più rapida o una lancia più lunga, solo un potere maggiore di quello che puoi ottenere con altri mezzi?»
«Non è come dici!», protestò Elmara, voltandosi rabbiosamente verso di lui. «Oh, prima che venissi qui, forse! Pensi che non abbia imparato nulla da te?»
«Calma, fanciulla, calma. Non sono un mago malvagio, ricordi?»
El lo fissò per un momento, poi sorrise. «Riuscivo meglio a frenare il mio temperamento e la mia lingua quando ero un ladro, vero?»
Braer scrollò le spalle. «Eri un uomo, allora, in una città di uomini – con un amico intimo con cui scherzare – e sapevi, in ogni momento, che una mancanza di controllo avrebbe significato la morte. Ora sei una donna, in armonia con la foresta, di cui percepisci i flussi emotivi ed energetici. Le cose piccole risultano più intense al di fuori della città affollata, più crude, più affascinanti». Sorrise e aggiunse: «Non posso credere di aver iniziato a cianciare tanto – e come un saggio umano, per giunta!»
Elmara rise. «Allora ho avuto un effetto positivo su di te».
Braer si trastullò con la punta di un orecchio, avanti e indietro, un gesto di scherno amichevole tra gli elfi, e affermò: «Mi sembra di aver menzionato un incantesimo, o sbaglio?»
El fece roteare gli occhi. «Ero sicura di non riuscire a fartelo dimenticare per sempre…»
Braer le fece un cenno imperioso che, come ormai sapeva, significava che doveva procedere, e incrociò le braccia sul petto. Elmara accennò un sorrisino da fanciulla innocente, poi si voltò verso la pozza d’acqua. Allargò le braccia, chiuse gli occhi e sussurrò una preghiera a Mystra, sentendo il potere crescere dentro di lei, poi espandersi verso l’esterno. Aprì gli occhi, aspettandosi di vedere gli ormai familiari bagliori magici bluastri sul laghetto, magari sulla roccia dove si era manifestata la fiamma di Mystra, e quando si voltò, vide che il corpo di Braer presentava qua e là segni magici.
«Ahhh!» Sconcertata, fece un passo indietro, lasciando ricadere le mani lungo il corpo. Tutto brillava di un blu accecante, in qualunque direzione guardasse… l’intero mondo pulsava forse di magia?
«Sì», rispose Braer tranquillamente, avendo letto di nuovo i suoi pensieri. «Finalmente riesci a vederlo. Tuttavia», continuò bruscamente, «hai incontrato ancora qualche difficoltà nel compiere una sfera di incantesimi, vero?»
La donna gli rivolse un’occhiata infuriata, ma trasalì nuovamente, stupefatta. L’elfo alto e austero che conosceva la stava guardando, ma nella vista speciale che le conferì l’incantesimo si rivelò illuminato di un grande potere, e il bagliore bianco bluastro intorno a lui si elevò nella sagoma tenebrosa di un drago. «Sei… sei un drago!»
«Qualche volta», rispose Braer scrollando le spalle, «ne prendo le sembianze. Ma in realtà sono un elfo che ha imparato a trasformarsi in un drago… e non viceversa. Io sono l’ultima ragione per cui i maghi diedero la caccia ai draghi di Athalantar».
«L’ultima ragione?»
«Gli altri», affermò tranquillamente, «sono morti. I maghi sono stati molto efficienti in tal senso».
«Oh», esclamò Elmara. «Mi dispiace, Braer».
«Perché?», le chiese lievemente. «Non li hai uccisi tu… sono i maghi a doversene dispiacere e la mia gente conta su di te, affinché un giorno se ne possano pentire».
Elmara si drizzò. «Intendo farlo. Presto».
L’elfo scosse il capo. «No, ragazza, non ancora. Non sei pronta… e un singolo arcimago, indipendentemente dalla sua potenza, non può sperare di avere successo contro tutti i maghi e le creature al loro servizio, se per caso si coalizzano contro di te». Sorrise e aggiunse: «E non hai nemmeno ancora imparato a essere un arcimago. Accantona per qualche tempo la vendetta. La si assapora di più se la si attende a lungo».
Elmara sospirò. «Potrei morire di vecchiaia con i maghi che la fanno ancora da padrone».
«Molte volte ho letto questo timore nella tua mente, da quando ci siamo incontrati per la prima volta», ribatté Braer, «e so che ti accompagnerà fino alla tua morte… o alla loro. È per tale ragione che devi lasciare la Grande Foresta prima che inizi a sembrarti una gabbia».
El fece un respiro profondo, poi annuì. «Quando dovrei partire?»
Braer sorrise. «Non appena avrò fatto comparire un paio di fazzoletti. Gli elfi odiano gli addii lunghi e tristi ancora di più di quanto facciano gli umani».
El cercò di ridere, ma lacrime improvvise le riempirono gli occhi.
«Vedi?», esclamò Braer sotto voce, avanzando per abbracciarla. Ma prima che la tirasse a sé, Elmara vide che anche l’elfo stava piangendo.
La notte era mite e silenziosa e il cielo di colore blu intenso quando El lasciò l’ombra familiare della foresta e si diresse attraverso le colline dolci verso le distanti Cascate Ladyhouse. Lontana dal riparo degli alberi, si sentì improvvisamente nuda, ma frenò il desiderio di affrettare il passo. Da quelle parti, chi andava di fretta rappresentava un bersaglio eccellente per i fuorilegge armati di archi… e poi, senza alcun nemico in vista e con un carico pesante di salsicce, selvaggina arrostita, formaggio, vino e pane sulle spalle, non aveva in realtà alcun bisogno di mettersi a correre.
Raggiunse la strada per Hastarl e quasi immediatamente si ritrovò oltre l’ultimo cumulo di pietra che marcava il confine. Era meraviglioso metter piede per la prima volta nella sua vita fuori dal Regno del Cervo.
Elmara respirò profondamente l’aria frizzante dell’autunno imminente, e osservò il paesaggio intorno a lei a mano a mano che avanzava. Si trovava a passare tra l’erba del sottobosco, alta fino alla vita, in cui, anni addietro, era stato appiccato il grande incendio per cacciare gli elfi da quelle terre, che l’uomo voleva per sé. Ma gli uomini si erano poi accalcati nelle città e nei paesi, vivendo stipati all’inverosimile, lungo il Delimbiyr, e, estate dopo estate, la foresta ricominciava a reclamare le colline. Presto sarebbero tornati anche gli elfi, amareggiati e abili con le frecce come non mai.
In quei luoghi i giovani alberi si innalzavano come una schiera scura di alabarde; sopra di essi due falchi si librarono in circolo nel cielo limpido. La donna proseguì con passo allegro, e non si fermò finché non calò la notte e i lupi non iniziarono a ululare.
Si era aspettata qualcosa di più di poche casupole di pietra diroccata e un granaio cadente, ma la strada saliva fra gli alberi verso un fragore lontano d’acqua; senza dubbio si trattava delle cascate.
La strada si strinse fino a diventare uno sconnessa pista per carri che piegava verso est. Da essa partiva un sentiero che si dirigeva in mezzo agli alberi, lungo il quale si udiva il rumore dell’acqua. Elmara lo imboccò e giunse in un campo interrotto da un’immensa distesa di roccia segnata dal fuoco e percorsa dal fiume impetuoso; davanti a lei si ergeva un alto edificio.
Le sue vecchie pietre erano ricoperte di edera fitta, e la porta era scura, ma alla vista magica della ragazza essa appariva blu, il cuore di una rete di linee luminose che si estendevano attraverso i campi e lungo il sentiero che aveva percorso. La sponda del fiume luccicò sotto i suoi piedi, allora lei balzò bruscamente da una parte e iniziò ad avanzare sul muschio accanto al sentiero.
Poco ci mancò che inciampasse nella donna anziana in vesti nere che, inginocchiata nel fango, stava piantando piccoli germogli color giallo-verde, ricoprendoli abbondantemente di terra.