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Tarthe esplose. «Perché tutte queste domande su ciò che è giusto, su ciò che dovresti fare e tutto il resto? Hai il potere: usalo! Quando mai hai udito altri maghi chiedere se l’incantesimo è gradito a chi sta loro intorno?»

«Non abbastanza spesso», esclamò uno degli altri guerrieri, e Tarthe si voltò per lanciargli un’occhiataccia.

L’uomo si strinse nelle spalle e allargò le mani. «Eh, Tarthe», protestò, «non posso fare a meno di esprimere la mia visione del mondo».

«Hmmmph», grugnì il capitano. «Bada che qualcuno non alteri la tua visione del mondo con la forza, magari rovinandoti ciò con cui vedi, non ciò che vedi».

«Ora basta», esclamò la donna sollevando le mani. «Vi darò la luce. Peggio per te, Tarthe, se il risultato non sarà piacevole. State indietro».

Estrasse qualcosa di piccolo e luminoso da una tasca della cintura, lo sollevò e mormorò alcune parole. L’oggetto sembrò gonfiarsi e crescere fra le sue dita, che si allargarono per consentire a questo di sollevarsi e rimanere sospeso davanti al suo volto. Poi iniziò a girare e si trasformò in una sfera di luce pulsante, sempre più intensa, che dava al naso adunco della maga un aspetto tetro.

Quando la sfera raggiunse le dimensioni della sua testa e la massima luminosità, Elmara abbassò lo sguardo su di essa. Ubbidientemente si allontanò da lei, scivolando silenziosamente nell’aria, oltrepassò il balcone e fluttuò nel buio antistante. Al suo passaggio, le tenebre si schiusero come una tenda squarciata, mostrando loro le dimensioni reali dell’ampia stanza. Ancora prima che raggiungesse la parete opposta del grande spazio circolare, apparvero qua e là altre sfere luminose, che si intensificarono e crebbero fino a illuminare quasi l’intera stanza. Balconi come il loro costeggiavano la parete per tutto il perimetro, a eccezione delle zone in cui permaneva oscurità sotto e sopra. Lo spazio sferico era enorme e il diametro della stanza era di gran lunga maggiore di quello esterno della torre.

«Per tutti gli dei!», esclamò attonito uno dei guerrieri.

«Tyche, assistici», mormorò il sacerdote accanto a lui.

Quattro sfere luminose fluttuando si portarono al centro della sala gigantesca. Tre di esse erano alte quanto due uomini, e la quarta, più piccola, era sospesa tra queste.

Quella più vicina conteneva un drago immobile, la sua sagoma imponente era attorcigliata per poter stare all’interno della luce, le sue scaglie rosse chiaramente visibili. Sembrava addormentato, tuttavia i suoi occhi erano aperti. Aveva un aspetto potente, fiero e sembrava in attesa. Il globo più distante conteneva invece un essere raccontato nelle favole: indossava una tunica ed era simile a un uomo, ma la sua pelle era purpurea, i suoi occhi, orbite bianche e dalla bocca usciva una selva di tentacoli. Anch’esso era immobile nella sua luminosità, sospeso nel nulla, e le sue mani vuote avevano solo quattro dita. La terza sfera era parzialmente nascosta dietro la massa del drago ma gli uomini poterono vedere quel tanto da sentirsi accapponare la pelle. Il tetro inquilino era una creatura dal corpo sferico occupato da un occhio enorme e da una bocca con imponenti zanne, contornato da antenne occhiute e serpentiformi. Alcuni suoi simili si diceva che regnassero su numerosi piccoli regni a ovest del Calimshan, e che trattassero tutti gli abitanti o i forestieri dei loro territori come schiavi.

Lo sguardo di Elmara, tuttavia, fu attratto dalla quarta sfera, la più piccola. Nelle sue profondità era sospeso un grosso libro tenuto aperto da due mani scheletriche. Quando la giovane socchiuse gli occhi infastidita dal bagliore blu intenso – tutto in quel luogo era magico, e ciò rendeva quasi inutile la sua vista speciale – poté vedere trame lucenti che collegavano le quattro sfere e oscillavano tra le mani e il tomo. Dovevano essere guardiani animati, sia quelle ossa, sia i tre mostri.

«Dunque voltiamo le spalle alla grande sfida e rimaniamo in vita, o inseguiamo quel libro e moriamo in gloria?» La voce di Ithym era forzata.

«A che serve un libro?», rispose uno dei guerrieri con fare terrorizzato.

«Sì», assentì un altro. «Proprio ciò di cui ha bisogno Faerûn: ulteriori incantesimi mortali per far giocare i maghi».

«E se la mettessimo così?» si intromise Gralkyn. «Quel libro potrebbe contenere preghiere a un dio, o istruzioni per giungere a un tesoro, o…»

Dlartarnan gli lanciò un’occhiata arcigna. «So riconoscere un libro di incantesimi quando ne vedo uno», grugnì.

«Non ho fatto tutta questa strada», esclamò Tarthe zelante, «per arrendermi ora, se mai esista una modo sicuro per tornare indietro. E poi non ho intenzione di tornare in quell’ultima taverna a mani vuote, e far credere a tutti quegli ubriaconi che siamo un branco di codardi che non hanno fatto altro che cavalcare, cacciare un paio di conigli nelle regioni selvagge e tornare di nuovo a casa, con le spade arrugginite nei foderi».

«Questo è l’atteggiamento» assentì Ithym, poi aggiunse teatralmente, «che ci farà ammazzare tutti».

«Basta!» intimò Elmara. «Ora siamo qui e abbiamo due scelte: o troviamo un’altra via per proseguire, o combattiamo quegli esseri, poiché non c’è alcun dubbio: tutte le sfere sono collegate al libro, e anche quelle mani».

«Una morte è imminente», esclamò la voce profonda di Tharp, che parlava raramente. «L’altra possiamo lasciarla a dopo?»

Uno dei sacerdoti sollevò il suo simbolo sacro. «Tyche ordina al coraggioso e al leale di cercare la gloria!» affermò bruscamente la Mano di Tyche.

«Tempus invita gli avventurieri ad abbracciare la battaglia, e a non fuggire se minacciati da nemici forti», gli fece eco la Spada di Tempus. I sacerdoti si scambiarono occhiate e sogghigni mentre si accingevano a impugnare le armi.

Gralkyn sospirò. «Sapevo che cavalcare con due sacerdoti guerrafondai ci avrebbe causato guai seri».

«E non sei rimasto deluso», affermò Tarthe, «per tua fortuna. Dunque ora sei in pace, pronto a parlare di strategie contro queste bestie nelle sfere, senza parole furbe per dissuaderci dell’affrontarle!»

Vi fu un breve silenzio e i guerrieri si scambiarono sorrisi tristi o sguardi indifferenti per mascherare, invano, la paura nei loro occhi.

Elmara prese la parola in quel silenzio teso. «Ci troviamo nella casa di un mago, e come adoratrice di Mystra, tra tutti voi sono quella che più si avvicina a un mago. È giusto che sferri io il primo attacco», deglutì, e tutti videro che stava tremando per l’eccitazione e per la paura, «in quanto ho più possibilità rispetto a voi di avere successo contro… ciò che ci sta di fronte».

«Che cosa sei, Elmara? L’Alchimista in versione idiota, forse, o lo Stregone Supremo di tutto il Calimshan? Oppure sei davvero stupida come fanno pensare le tue parole?», domandò Dlartarnan aspramente.

«Trattieniti», gli intimò Tarthe. «Non è il momento di discutere!»

«Quando sarò morto», ribatté duramente il guerriero, «sarà troppo tardi per l’ultima disputa… pertanto vorrei godermela ora».

«Sarò un’idiota», rispose El affabilmente, «ma accantona per un attimo la paura e rifletti: non potrai fare a meno di concordare con me che, per quanto inutili potranno essere i miei sforzi, sono ancora la strada migliore da percorrere».

Numerosi guerrieri protestarono all’unisono, poi d’un tratto vi fu di nuovo silenzio. Facce truci guardarono le sfere, poi la giovane tremante, e di nuovo le sfere.

«È una pazzia», esclamò infine Tarthe, «ma è di gran lunga la nostra migliore speranza».

Gli rispose un silenzio carico di preoccupazione; poi alzò un po’ la voce e chiese: «C’è qualcuno che lo nega? O che non è d’accordo?»