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«Non toccarli», esclamò El bruscamente, «a meno che tu non voglia baciare uno scheletro!»

Il guerriero indietreggiò di un passo, la spada sempre all’erta. «Dubito di essere pronto per una cosa simile», disse ironicamente. «E tu?»

«Ciò che dev’essere, sarà», rispose laconicamente la giovane. «Stai indietro contro quel muro, il più distante possibile».

Senza voltarsi a verificare se i suoi ordini fossero stati obbediti, raggiunse il sarcofago e appoggiò fermamente una mano su uno dei libri.

Il coperchio di legno scuro scomparve. Con velocità inumana, una figura alta, magra e vestita di una tunica balzò dal sarcofago facendo rovesciare i libri degli incantesimi.

Un paio di mani gelide si aggrapparono a Elmara, e affondarono le dita nella sua carne viva.

Invece di ritrarsi, la ragazza si protese, sorrise a denti stretti alla faccia avvizzita di Ondil e pronunciò l’ultima parola del suo incantesimo. Lo scheletro si ritrovò con nulla tra le mani un attimo prima che il soffitto della stanza si schiantasse su di lui, seppellendo la bara.

La maga riapparve accanto a Tarthe, le spalle al muro, gli occhi sulla bara. Polvere ed echi turbinarono tutt’intorno, mentre El si massaggiava i polsi dolenti e osservava le pietre del soffitto centrale risollevarsi silenziosamente e tornare nella loro posizione originale. Tarthe guardò la donna, poi di nuovo il mago. Il suo sguardo denotava sgomento ma, per la prima volta dopo tanto tempo, anche speranza.

Quando tutte le pietre furono tornate al loro posto, una figura polverosa e malconcia si levò dal sarcofago e rimase a guardarli, ondeggiante. Lentamente, sollevò le ossa scheggiate di un braccio. Il cranio era in gran parte distrutto, ma rimaneva la mandibola, che mormorò qualcosa mentre tentava di muovere il braccio piegato e puntarlo contro di loro. Una luce fredda bruciava nell’orbita ancora integra. Il cranio aperto dai bordi dentellati si voltò a guardare Tarthe, poi Elmara sussurrò una parola, e il soffitto si riabbatté sullo scheletro.

Questa volta nulla si sollevò dal sarcofago, e la giovane fece qualche cauto passo avanti per sbirciare nella bara aperta.

Sul fondo vi erano polvere, ossa scheggiate e frantumate fra i brandelli di una tunica un tempo sfarzosa, e i tre libri di incantesimi. Alcune ossa si spostarono, cercando di sollevarsi. Un braccio semidistrutto si alzò barcollante verso Elmara, che allungò la mano con freddezza, lo afferrò e si mise a tirare.

Una volta liberatolo dal sarcofago, lo scaraventò sul pavimento e lo calpestò ripetutamente, fino a frantumarlo del tutto. Poi guardò nuovamente nella bara, alla ricerca di altri resti cocciuti. Altre due volte afferrò le ossa e le calpestò con i piedi con divertimento di Tarthe, che vedendola scoppiò a ridere.

Elmara scosse il capo e infilando di nuovo la mano nella cassa, prese i libri e mormorò le parole di un ultimo incantesimo. I libri scomparvero pacificamente.

Dietro di lei, la risata di Tarthe si interruppe bruscamente. El si voltò rapidamente, in tempo per vedere un uomo sorridente, vestito di una tunica, dapprima una sagoma confusa, poi una figura in carne ed ossa, innalzarsi da un elmo luccicante sul pavimento… quello di Tharp.

Era un sorriso crudele, e l’uomo si voltò verso Elmara, che si irrigidì, ricordando una faccia impressa per sempre nella sua memoria. Il mago che a cavallo del drago aveva bruciato Heldon!

«Ah, sì, Elmara o dovrei dire Elminster Aumar, Principe di Athalantar? Tharp è stato la mia spia tra le Lame Coraggiose, fin dal principio. Sei stata molto utile anche tu, a scovare ogni sorta di malcontenti, di magie nascoste e di oro. Sì, i signori maghi ti ringraziano in particolare per l’oro… quello non è mai abbastanza». Sorrise mentre il coltello lanciato da Tarthe contro di lui lo attraversò come fosse un fantasma, per schiantarsi rumorosamente contro la parete più lontana della stanza.

Un istante più tardi, si udì il ruggito di un fuoco imponente. Il corpo in fiamme di Tarthe Maermir, capitano delle Lame Coraggiose, venne scaraventato contro il muro opposto, ed El udì il collo del guerriero spezzarsi. Il mago guardò il cadavere bruciante e sogghignò. «Credevi che fossi tanto sciocco da rivelare la posizione del mio corpo reale? Sì? Ah, bene…»

Elmara socchiuse gli occhi e pronunciò una sola parola. Il rumore di un corpo che colpisce pesantemente una parete giunse alle sue orecchie, e l’immagine del mago svanì.

Un attimo dopo, riapparve lì vicino, accasciato contro il muro. Guardò crudelmente Elmara, che stava mormorando un incantesimo più potente, ed esclamò: «I miei ringraziamenti per aver distrutto Ondil. Mi divertirò ad aumentare i miei poteri con la sua magia. Sono in debito con te, fanciulla… pertanto è mio dovere, nonché un piacere, liberarci dei tuoi seccanti attacchi, una volta per tutte!» L’anello che portava al dito scintillò e tutto fu avvolto dalle fiamme.

Agitando le mani nei gesti flebili e inutili di un incantesimo interrotto, El si ritrovò scagliata fuori dalla finestra infranta, dalla quale erano caduti i due ladri, una spirale di fiamme scoppiettanti avvolte intorno al suo corpo. Urlò di dolore, e si agitò per un lungo tratto, al fine di apparire impotente il più a lungo possibile, prima di ricorrere nuovamente all’incantesimo che le permetteva di volare. Il libro legato attorno alla vita sembrava proteggerla dalle fiamme, ma le sue orecchie erano tormentate dallo sfrigolio della sua chioma in fiamme.

Sotto di lei giacevano i corpi frantumati dei due ladri, e un’ampia zona annerita dove la terra emanava ancora fumo, tutto ciò che Briost aveva lasciato del guerriero più giovane e dei cavalli che stava accudendo. A pochi centimetri sopra di loro, Elmara, riluttante, schizzò via, librandosi sopra il terreno, lasciando dietro di sé una traccia di fumo proveniente dai suoi vestiti anneriti. Mentre si allontanava volando pianse tutte le lacrime che aveva, ma non per il dolore crescente delle sue bruciature.

La piccola imbarcazione scoperta ospitava un uomo e una donna. Il vecchio brizzolato, a poppa, affondava la pertica con ritmo regolare e spingeva la barca fra la foschia densa dell’imbrunire.

Guardò la giovane donna dal naso adunco, seduta a prua, e le chiese tranquillamente: «State andando al tempio, fanciulla?»

Elmara annuì. Granelli di luce scintillavano e si agitavano continuamente intorno al fardello voluminoso che teneva con entrambe le mani premuto contro il petto, nascondendone la vera natura. Il vecchio in ogni caso lo adocchiò, ma poi distolse lo sguardo e sputò pensieroso nell’acqua.

«State attenta, ragazza», esclamò, posando l’asta in modo che la barca fosse sospinta dalla corrente. «Non molti ci vanno, ma ancora meno ritornano al molo la mattina successiva. Alcuni non li troviamo più, altri li troviamo in cumuli di cenere o di ossa contorte, e altri ancora sono ciechi o parlano a vanvera, dall’alba al tramonto».

La giovane dal naso aquilino si voltò e lo osservò a lungo con sguardo inespressivo. Poi alzò le spalle, le lasciò ricadere e rispose: «È una cosa che devo fare. Sono costretta». Scrutò oltre, nella foschia e aggiunse a bassa voce: «Come lo siamo spesso tutti, a quanto pare».

Il vecchio alzò a sua volta le spalle, mentre l’isola della Danza di Mystra si profilava all’orizzonte, immersa nella foschia sospinta dal vento, una massa silenziosa e scura sull’acqua.

Diventava sempre più grande a mano a mano che si avvicinavano. Il vecchio virò lievemente. Pochi istanti dopo attraccò delicatamente a una vecchia banchina di pietra, e il timoniere esclamò: «La Danza di Mystra, signorina. Il suo altare si erge sulla collina nascosta dietro quella che si trova davanti a noi. Ritornerò come d’accordo. Che Mystra vi arrida».

Elmara gli fece un inchino e balzò sul molo, lasciando quattro reali d’oro nella mano dell’uomo. Il timoniere tenne ferma la barca nel silenzio, e osservò la giovane mentre risaliva la collina con passo risoluto. Il sole era ormai calato e nuvole purpuree stavano coprendo rapidamente il limpido cielo di Faerûn.