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La spiaggia era deserta. Una brezza fresca e salata, proveniente dal mare, l’accarezzò e la fece rabbrividire. Era nuda, a eccezione della Spada del Leone, ancora appesa intorno al collo. Elmara sospirò, e si alzò in piedi barcollante. Non vi era alcuna traccia di case o di banchine o di staccionate: solo alberi rachitici, rocce ed erba aggrovigliata, vecchi ceppi, e cespugli dove finiva la spiaggia e iniziava la vegetazione.

Fece un passo avanti, poi si arrestò impietrita. Sulla sabbia di fronte a lei, qualcuno aveva scritto una parola: «Athalantar».

El guardò la scritta, poi le sue membra nude, e rabbrividì. Tossì, scosse la testa, sollevò il mento, e si allontanò dall’acqua, diretta verso il sole nascente.

In un luogo in cui gli incantesimi guardiani baluginavano notte e giorno, nelle profondità del Castello Magico, un uomo si accingeva a leggere.

«Garadic», chiamò freddamente, sorseggiando la sua bevanda.

Il servo squamoso uscì riluttante dall’ombra e aprì cautamente il Libro degli Incantesimi di Ondil, posto su un leggio nel lato opposto della stanza, lontano dal padrone. Incantesimi protettivi, sempre all’erta si raggrupparono e turbinarono intorno al leggio, ma non vi furono fulmini, né accaddero eventi spiacevoli. La prima pagina era bianca.

«Portamelo», ordinò di nuovo freddamente.

Quando il leggio fu di fronte alla sua sedia alta e imbottita, Ilhundyl ripose il calice di vino color smeraldo e congedò con un gesto la creatura squamosa e dinoccolata. Voltò lui stesso la seconda pagina.

Era vuota e bianca come la precedente e come il risguardo. E così anche la successiva… e quella dopo… e quella dopo ancora… tutte le pagine erano vuote! Ilhundyl impallidì e aggrottò le sopracciglia.

Pronunciò una parola che fece affievolire tutte le luci della stanza. Il pavimento emise un breve bagliore e si udì un rumore stridente, mentre una pietra si ritraeva per rivelare un buco. Molto rapidamente, come se fosse in attesa, un viticcio si innalzò dalle invisibili profondità sottostanti. Toccò delicatamente il libro, quasi incurante, e poi lo avvolse solo per ritrarsi, deluso, e tornare da dove era venuto. Ciò significava che non vi erano scritte nascoste, né porte o legami con altri spazi e altri libri. Il tomo era vuoto.

Ilhundyl fu colto da un’ira improvvisa. Si alzò dalla sedia e, furente, si lanciò attraverso porte e tendaggi, che si aprivano autonomamente al suo passaggio. Si fermò, dopo aver percorso metà castello, davanti a una grande sfera di cristallo scintillante, posta su un piedistallo nero e solitario in una piccola stanza dalle molte lampade.

Scrutò nelle profondità della sfera, dentro la quale apparvero fiamme e guizzi luminosi, alimentati dalla sua rabbia. Ilhundyl guardò le fiamme crescere lentamente nel cristallo, e lambire con i loro artigli i confini arrotondati della sfera, poi improvvisamente si mise a gridare. «Le spezzerò le ossa! Se è affogata, la ripescherò, e poi le frantumerò le ossa come uova, e farò sì che mi supplichi per essere liberata! Nessuno osa ingannare Ilhundyl! Nessuno!»

Pronunciò una parola, e dall’ombra del suo nascondiglio, la sagoma alata e bitorzoluta di Garadic si levò frettolosamente e volò rapida attraverso il castello al fianco del suo padrone.

Il mago guardò nella sfera, evocando dalla sua memoria il volto della giovane dal naso adunco. Le fiamme turbinarono e si agitarono per poi placarsi, e Ilhundyl si concentrò per inviare una falce che le tagliasse le gambe all’altezza delle ginocchia, lasciandola gridare e trascinarsi fino al suo arrivo; le avrebbe fornito proprio un valido motivo per gridare e strisciare!

Ma quando le fiamme del cristallo si misero a fuoco, il volto che lo stava fissando con tranquillità, non era quello che Ilhundyl stava cercando. Rimase a bocca aperta per lo stupore.

Il viso barbuto e rugoso abbandonò la sua solita espressione di vaga curiosità e gli sorrise gentilmente, annuì in segno di saluto, ed esclamò: «Buon giorno, Ilhundyl; hai un nuovo libro di incantesimi, vedo».

Il mago sputò all’Alchimista. La saliva crepitò ed evaporò a contatto con la sfera. «Le pagine sono vuote, e tu lo sai!»

L’Alchimista gli sorrise nuovamente, questa volta a denti stretti. «Sì, ma la giovane maga che l’ha offerto a Mystra non lo sapeva. Tu le avevi detto di non sfogliarlo, e lei ha obbedito. Una tale fiducia e onestà è purtroppo rara al mondo d’oggi, vero Ilhundyl?»

Il Mago Pazzo del Calishar ringhiò e sferrò un incantesimo nella sfera. Il mondo al suo interno lampeggiò e tremò, riflettendosi sulle guance di Ilhundyl, ma l’Alchimista si limitò a sorridere, e allora l’incantesimo si ripercosse sibilante sul Mago Pazzo, esplodendo dal cristallo vibrante per poi colpirlo e imperversare nella stanza. Garadic si scansò rapidamente per evitare la forza delle fiamme, ma fu scaraventato ugualmente contro le pareti dall’impeto del fuoco.

«La collera, Ilhundyl, è la rovina di molti apprendisti», affermò con tranquillità il vecchio.

Le urla di frustrazione del mago echeggiarono nella stanza. Poi si voltò, lo sguardo assassino, e scagliò un fuoco lacerante. Garadic non ebbe nemmeno il tempo di emettere un grido.

Un menestrello stava cantando nell’osteria debolmente illuminata dell’Unicorno, quando la giovane donna dal naso aquilino entrò con passo stanco. La taverna sul bordo della strada si trovava nel centro di un gruppo di fattorie, a ovest di Athalantar; per raggiungerla, El aveva camminato tutto il giorno bevendo solo acqua di ruscello.

L’oste udì lo stomaco della forestiera brontolare sonoramente mentre questa avanzava a grandi passi, e la salutò affabilmente: «Un tavolo e un po’ di stufato, signora? Seguiti da arrosto e da buon vino naturalmente…»

La giovane annuì, abbozzando un sorriso sulle labbra severe. «Un tavolo d’angolo tranquillo, se possibile. Scuro e appartato».

L’oste annuì a sua volta. «Ne ho molti del genere… da questa parte, prego.»

La forestiera stavolta non sorrise e si lasciò condurre al tavolo. I suoi abiti scuri erano consunti e anonimi, ma dalle sue maniere si capiva che era colta e aveva frequentato la buona società, pertanto il locandiere non le chiese denaro in anticipo, ma rimase stupefatto quando la donna esile si tolse gli stivali con un sospiro di sollievo e rovesciò un reale d’oro sul tavolo.

«Fatemi sapere quando quello avrà bisogno di compagnia», mormorò, e l’oste, soddisfatto, la rassicurò che avrebbe fatto tutto ciò che comandava.

Il vino – di colore rosso rubino, che bruciava fin giù nello stomaco – era eccellente, come pure l’arrosto, e il canto era piacevole. Le pietre del pavimento erano fredde, perciò Elmara si rimise le scarpe, si avvolse nel mantello, e si appoggiò al muro, spegnendo l’unica candela del tavolo.

Immersa nell’oscurità, si rilassò ascoltando il menestrello che raccontava di draghi femmina e di coraggiose donne-cavaliere che salvavano giovanotti incatenati, destinati a fungere da offerte sacrificali. Era piacevole stare al caldo, con lo stomaco di nuovo pieno, sebbene fosse certa che l’indomani, raggiunti i confini di Athalantar, avrebbe dovuto affrontare pericoli e morte (non la sua, sperava).

Ma non si sarebbe arresa. Mystra si aspettava questo da lei.

La voce dolce del menestrello pronunciò parole che interruppero i pensieri di Elmara sulla delusione di Mystra nei suoi confronti, e la fanciulla si protese per ascoltare con attenzione: non aveva mai udito quella ballata. Una lode speranzosa al coraggioso Re Uthgrael di Athalantar. Ascoltando le calde parole di rispetto per il gran sire mai conosciuto, El si ritrovò gli occhi pieni di lacrime. Poi la voce melodiosa cambiò, si ispessì, fino a diventare un gracchio. Elmara scrutò nell’ombra in direzione dello sgabello accanto al focolare sul quale sedeva il menestrello, e si irrigidì.