Con lo sguardo pieno di paura, il giovane si teneva la gola e si contorceva. Guardava con occhi stralunati l’uomo che si era alzato dalla sedia del tavolo accanto, occupato da uomini arroganti, riccamente vestiti che stavano ridendo della sorte del menestrello. Il tavolo era una giungla di bottiglie vuote, di bicchieri, e di pelli. Elmara vide bacchette magiche alle loro cinture, nonché pugnali… maghi, senza dubbio.
«Che cosa state facendo?» La voce tagliente era quella di un mercante grasso seduto a un altro tavolo.
Il mago, in piedi con una mano protesa, che serrandosi lentamente soffocava il menestrello, voltò la testa per mostrare il suo ghigno: «Non permettiamo che nel regno di Athalantar si pronunci il nome di quell’uomo morto».
«Non siete in Athalantar!», protestò un altro avventore, mentre il cantante continuava a gorgogliare impotente.
Il mago si strinse nelle spalle e si guardò freddamente intorno. «Noi siamo i signori maghi di Athalantar, e questa terra farà presto parte del nostro regno», affermò categorico.
Elmara vide l’oste, che stava uscendo dalle cucine con un vassoio fumante sulla spalla, arrestarsi scioccato alle parole del mago.
Questi si guardò intorno con sorriso beffardo. «C’è qualcuno qui abbastanza stupido da tentare di fermarmi?»
«Sì», rispose tranquillamente Elmara dal suo angolo, rompendo l’incantesimo dello strangolamento. Le sue mani si mossero di nuovo mentre si spostava lateralmente, ancora più in ombra. L’intero tavolo dei maghi – El sospettava che fossero in realtà apprendisti di poco conto, in viaggio per scortare qualche carovana o svolgere compiti minori – scrutò nell’oscurità, cercando di vedere chi aveva parlato. La giovane terminò l’incantesimo, poi fece qualche passo avanti, rivolgendosi al mago ancora in piedi. «Chi possiede grandi poteri magici non dovrebbe mai usarli per intimidire chi non ne ha. Non siete d’accordo?»
«Vi sbagliate», ringhiò il mago, e sollevò le mani per effettuare un’altra magia.
Elmara sospirò e puntò il dito contro di lui. L’uomo si irrigidì a metà incantesimo e si portò le mani alla gola.
«Il vostro incantesimo», spiegò affabilmente la donna al mago che stava soffocando. «Sembra molto efficace… ma allora, forse mi sbaglio».
Le sue parole fecero ruggire di rabbia i sei sedicenti maghi, che balzarono dalle sedie, impugnando le bacchette magiche, e nella fretta rovesciarono bottiglie e caraffe. El guardò i vetri rovesciarsi e rotolare, sorrise, e pronunciò la parola che avrebbe scatenato contro di loro il suo incantesimo.
Numerose bacchette magiche si alzarono e mani infuriate tracciarono gesti nell’aria. Furono pronunciate parole rabbiose e comparvero oggetti strani mentre i sei abili maghi scagliavano sortilegi malvagi al loro nemico solitario.
Ma non accadde nulla.
Elmara, allora, annunciò tranquillamente ai presenti: «Posso impedire a questi uomini di usare i loro poteri… per un po’. Non mi dispiacerebbe scatenare una bella battaglia di incantesimi, ma preferirei non distruggere in tal modo questa locanda. Se volete sbarazzarvene?»
Tutti rimasero un attimo in silenzio, stupefatti. Poi le sedie vennero spinte indietro, e gli uomini afferrarono i pugnali, al che i maghi fuggirono o, meglio, tentarono di farlo. Varie gambe protese fecero inciampare maghi poco abituati a guardare dove mettevano i piedi, e pugni entusiasti misero al tappeto apprendisti poco avvezzi a evitare cose che non fossero sfere di fuoco. Uno di loro sfregiò con un pugnale il viso di un mercante, che a sua volta, ringhiando, estrasse il coltello e ne fece buon uso.
Il tonfo che produsse il corpo del mago cadendo fra le sedie ribaltate sul pavimento della taverna, fece calare di nuovo il silenzio. Solo uno dei maghi era morto; gli altri giacevano privi di sensi, sparpagliati fra i tavoli e le sedie disordinati.
L’oste fu il primo a dire ciò che molti degli avventori stavano pensando. «È stato tutto troppo facile, ma chi sopravviverà quando i loro colleghi si vendicheranno su di noi?»
«Certo, ci trasformeranno in lumache e ci schiacceranno sotto i piedi!»
«Incendieranno la locanda, con noi dentro!»
«Forse», affermò Elmara, «ma solo se la lingua di qualcuno si muoverà troppo liberamente». Con calma, sollevò le mani e operò un incantesimo, poi girò per la stanza toccando i maghi. Gli uomini si affrettarono a farsi da parte; era evidente che consideravano i maghi alla stregua di una disgrazia mortale.
Quand’ebbe terminato, mormorò una parola e, improvvisamente, dove giacevano i sette corpi apparvero sette pietre. Elmara fece un gesto, e le pietre scomparvero, lasciando solo una pozza di sangue scuro a testimoniare la loro presenza alla taverna.
Il mercante più vicino si rivolse alla giovane. «Li hai trasformati in pietre?»
«Sì», rispose, la sua faccia era solcata da un sorriso improvviso. «Vedi… è possibile cavar sangue dalle pietre». Nel mezzo di qualche risata incerta, la donna si rivolse al menestrello. «Hai abbastanza fiato per cantare?»
L’uomo annuì, esitante. «Perché?»
«Se non ti dispiace, vorrei ascoltare il resto della storia su Re Uthgrael».
Il menestrello si inchinò. «È un piacere, Lady…?»
«Elmara», le rispose. «Elmara Aumar… er, discendente di Elthryn di Heldon».
Il giovane la guardò come se avesse tre teste e una corona su ognuna di esse. «Heldon è stato ridotto in cenere nove inverni fa».
El non rispose, e dopo un momento l’uomo le chiese con curiosità: «Ma ditemi: dove avete mandato quelle pietre?»
Elmara scrollò le spalle. «Al largo della Danza di Mystra, dove le acque sono profonde. Quando l’effetto del mio incantesimo svanirà e riacquisteranno forma umana, dovranno nuotare in superficie per sopravvivere. Spero che abbiano polmoni capienti e forti».
A quelle parole, nella taverna tornò il silenzio. Il menestrello tentò di rompere la tensione ricominciando la Ballata del Cervo, ma la sua voce era rauca. Dopo essersi interrotto ben due volte, allargò le braccia e chiese: «Potete attendere fino a domani, Lady Elmara?»
«Naturalmente», rispose El, prendendo posto al tavolo appena raddrizzato dove sedevano prima i maghi. «Come stai?»
«Vivo, grazie a voi», rispose il menestrello tranquillamente. «Posso offrirvi la cena?»
«Se mi permetti di offrire da bere», ribatté Elmara. Un istante dopo si misero a ridacchiare.
Elmara ripose la terza bottiglia, vuota. La contemplò con sguardo grave e chiese, «Qualcuno dei principi è ancora in vita?»
Il menestrello alzò le spalle. «Belaur, naturalmente, anche se ho udito che ora si fa chiamare “re”. Non ne conosco altri, ma ve ne potrebbero essere. Poco importa, ora che i maghi governano apertamente, emanando decreti come se fossero tutti re. L’unico divertimento che abbiamo è guardarli mentre cercano di scannarsi a vicenda. Io non mi faccio vedere spesso.»
«Perché?» Elmara guardò il suo bicchiere semivuoto. Vino… una sostanza traditrice.
«Non è un luogo sicuro per chiunque parli apertamente contro i maghi, inclusi i menestrelli, le cui ballate potrebbero non essere gradite ai maghi o alle guardie di passaggio».
Il giovane si scolò pensieroso il bicchiere. «Athalantar non accoglie bene nemmeno i maghi forestieri… e a meno di non possedere potere sufficiente da sconfiggere tutti i maghi, perché andarci? Se un mago potente si recasse in Athalantar, i signori maghi lo vedrebbero senza dubbio come una minaccia e si coalizzerebbero contro di lui!»
Elmara rise. «Un mago prudente andrebbe altrove, eh?»
Il menestrello annuì. «E rapidamente». I suoi occhi si assottigliarono. «Avete uno sguardo strano, Elmara… Dove andrete domani?»
La giovane lo guardò. Fiamme covavano nelle profondità dei suoi occhi, ora molto scuri, e il sorriso che gli rivolse era tutt’altro che allegro. «Ad Athalantar, naturalmente».