12.
Scelte difficili, destini facili
Scegliere la propria strada nella vita è un lusso per pochi a Faerûn. Forse la mancanza di pratica costituisce la ragione per cui molti che hanno la possibilità di fare quella scelta, la sfruttano malamente.
Il primo segno premonitore di guai era la strada deserta.
A quell’ora della mattina, peraltro serena, la via per Narthil avrebbe dovuto essere affollata, avrebbero dovuto esserci carri cigolanti, carrozze tirate da buoi sbuffanti, numerosi venditori ambulanti che conducevano muli, braccianti e pellegrini che si trascinavano a fatica sotto il peso dei loro fardelli, e forse anche uno o due messaggeri a cavallo. Elmara, invece, ebbe la strada tutta per sé finché, giunta in cima all’ultima salita, non vide che il cammino era sbarrato da un grande cancello di tronchi. Quando viveva ad Hastarl, non vi erano cancelli sulle strade di Athalantar – altrimenti l’avrebbe certo saputo dai mercanti che, stanchi, durante i loro viaggi si lamentavano di ogni piccolezza.
Le guardie che stavano oziando su alcune panche dietro il cancello, si alzarono in piedi e brandirono le alabarde. Per tutti gli dei, pensò, erano guardie di Athalantar. Avevano un aspetto annoiato e brutale.
Elmara spostò il suo fardello per nascondere meglio il piccolo oggetto magico che aveva in mano, e si incamminò verso il cancello.
«Ferma, donna», esclamò senza complimenti il capitano delle guardie. «Nome e mestiere.»
Elmara si pose di fronte all’ufficiale dietro il cancello e rispose gentilmente: «Il primo non ti riguarda; per quanto riguarda il secondo, esercito la magia».
I soldati fecero un passo indietro e la loro noia scomparve in un istante. Le alabarde scintillarono mentre le guardie si avvicinavano di nuovo al cancello per minacciare la donna sola. Il capitano corrugò il viso assumendo un’espressione che avrebbe fatto scappare chiunque a gambe levate, ma la straniera rimase impassibile.
«I maghi che non servono il nostro re non sono i benvenuti», affermò la guardia. Mentre parlava, i suoi uomini si disposero alle estremità del cancello, le armi in pugno, e circondarono Elmara.
El li ignorò. «E che re sarebbe?»
«Re Belaur, naturalmente», sbottò il capitano, ed Elmara sentì la punta gelida di una lancia pungolarle la schiena.
«In ginocchio, ora», sbraitò la guardia, «e attendi il mago locale, che vorrà sapere di più sui tuoi affari. Meglio che gli usi più rispetto di quanto tu abbia fatto con noi».
Elmara sorrise a denti stretti e sollevò una mano vuota. Fece un piccolo gesto e rispose: «Oh, lo farò».
Dietro di lei si udirono i primi rantoli, e la punta che le punzecchiava la schiena sparì improvvisamente. Tutt’intorno le guardie vacillarono, si misero a urlare o a vomitare, e col volto bianco caddero in ginocchio. Una si afflosciò completamente a terra, e l’alabarda le cadde dalle mani.
«Che… che cosa stai facendo?» singhiozzò il capitano, col volto contratto dal dolore. «Magia…?»
«Un piccolo incantesimo che vi fa provare ciò che significa avere una spada infilata nelle budella», rispose con calma la giovane dal naso adunco. «Ma se ti disorienta…»
L’ufficiale sentì un’improvvisa fitta allo stomaco, e nel medesimo istante vi fu un lampo nell’aria di fronte a lui. Guardò in basso, e vide una lama d’acciaio scintillante protudergli dal ventre, e sangue rosso-scuro scorrere lungo la spada. Annaspò, si portò inutilmente una mano allo stomaco per calmare il dolore straziante e insopportabile, poi spada e dolore svanirono entrambi.
Il guerriero guardò in basso, sbalordito, il cuoio intatto della sua corazza. Poi alzò riluttante gli occhi e incontrò lo sguardo della giovane, che gli sorrise affabilmente e sollevò l’altra mano.
Il capitano impallidì, aprì la bocca per parlare, la mandibola tremante, e poi fuggì, seguito un attimo dopo dai suoi soldati. Elmara li guardò scappare, sorrise lievemente, e proseguì lungo la strada, diretta alla taverna.
L’insegna sopra la porta indicava che quello era il Ricovero di Myrkiel, e i mercanti le avevano detto che era la migliore (se non l’unica) taverna di Narthil. Elmara la trovò di suo gradimento, e si sedette su una sedia contro il muro in fondo alla stanza, da dove poteva vedere chi entrava. Ordinò un pasto caldo all’ostessa robusta e le chiese se avesse potuto usare indisturbata una stanza per qualche minuto, in cambio di un reale.
La locandiera inarcò le sopracciglia, ma senza una parola prese la moneta che El le porgeva e le mostrò una stanza la cui porta poteva essere sbarrata. Quando la giovane ritornò al suo posto, canticchiando il verso «O per una guardia di ferro!» la cena l’aspettava: pane con burro caldo e stufato di coniglio.
Era ottimo. Aveva quasi finito quando la porta principale del Ricovero si spalancò, per lasciar entrare guardie con le spade sguainate. Un uomo dallo sguardo furioso con una tunica rossa e argento si fece strada a grandi passi.
«Asmartha!» chiamò l’uomo splendidamente vestito. «Chi è questa fuorilegge a cui dai rifugio?» Con un gesto imperioso del capo, indicò la giovane seduta nell’angolo. L’ostessa rivolse un’occhiata rabbiosa a Elmara, ma la ragazza dal naso adunco stava tranquillamente leccando i rimasugli di salsa dall’osso di coniglio, e non vi badò.
Facendo cenno alle guardie di stargli attorno, l’uomo dalla tunica rossa si avviò impettito verso il tavolo di El. Gli altri avventori lo guardarono e frettolosamente spostarono le loro sedie per scansarsi, pur restando abbastanza vicini da poter vedere e udire tutto.
«Una parola, ragazza!»
Elmara sollevò lo sguardo, posandolo su un altro osso. Lo ispezionò, poi lo mise da parte, e ne scelse un terzo. «Potreste averne anche cento», rispose pacatamente prima di ricominciare a mangiare. Si udirono diversi risolini dai tavoli accanto, ma tornò il silenzio quando l’uomo finemente vestito si guardò attorno con aria severa.
«Ho sentito che sei una maga», affermò freddamente, di nuovo rivolto alla donna seduta.
Elmara ripose un altro osso. «No. Ho detto che esercito la magia», rispose senza disturbarsi a guardarlo. Dopo qualche istante, mentre rosicchiava indisturbata un osso dopo l’altro, divenne evidente che non aveva intenzione di aggiungere altro.
«Sto parlando con te, ragazza!»
«Sì, l’ho notato», assentì El. «Continuate». Prese tra le dita un altro osso, decise che non valeva la pena succhiarlo una seconda volta, e lo ripose nel piatto. «Un po’ di birra, per favore», gridò, sporgendosi per guardare oltre la schiera di guardie. Di nuovo i clienti vicini si scambiarono mormorii divertiti.
«Raztan», ordinò freddamente l’uomo, «affonda la tua lama in questa sgualdrina arrogante».
Elmara sbadigliò e si appoggiò allo schienale, rivelando un ventre bombato; Raztan non mancò il colpo e la sua lama affondò tanto facilmente che perse l’equilibrio e finì con la faccia nel piatto di stufato. Tutti, nella stanza improvvisamente silenziosa, udirono la punta della spada raschiare la parete di gesso dietro la giovane donna. Elmara allontanò con calma il piatto e scelse uno stuzzicadenti dal contenitore di peltro davanti a lei.
«Stregoneria!», sbottò una delle guardie, e sfregiò il volto di El. Non fuoriuscì nemmeno una goccia di sangue – e la lama oscillò liberamente attraverso la faccia dal naso aquilino, come se fosse fatta d’aria. Gli spettatori rimasero a bocca aperta.
L’uomo con la tunica storse la bocca. «Vedo che conosci l’incantesimo della guardia di ferro», esclamò per nulla impressionato.
Elmara gli sorrise, annuì, e mosse un dito. Le spade sguainate attorno a lei si contorsero, sibilarono e divennero serpenti grigi. Guardie terrorizzate videro le teste dentate inarcarsi e voltarsi per mordere le mani di chi le brandiva! Simultaneamente lasciarono cadere le armi e indietreggiarono. Un soldato si diresse verso l’uscita, e la sua corsa divenne uno scalpiccio di stivali pesanti quando anche i compagni imitarono il suo esempio. Tutt’intorno alle guardie, le spade, tornate normali, caddero tintinnati sul pavimento.