L’uomo elegantemente vestito indietreggiò, il viso bianco come un lenzuolo. «Parleremo ancora», affermò con una nota d’incertezza nella voce altezzosa, «e quando lo…»
Elmara sollevò entrambe le mani per tracciare un disegno intricato nell’aria, l’uomo le diede le spalle e si diresse rapidamente verso l’uscita. A metà stanza si fermò, oscillò, e gli spettatori lo udirono ringhiare di paura e di frustrazione. Un sudore improvviso gli bagnò la fronte mentre si sforzava di muoversi… ma non riusciva ad avanzare di un passo. La donna si alzò e girò intorno all’uomo impietrito. Occhi terrorizzati ruotarono nelle orbite mentre la osservavano arrivare.
«Chi governa qui?», gli chiese.
L’uomo grugnì ma non rispose.
Elmara sollevò contemporaneamente un sopracciglio e una mano.
«P-pietà», mormorò l’uomo ansimante.
«Non esiste pietà per i maghi», gli rispose la giovane con calma. «Questo l’ho finalmente imparato». Si voltò. «Ti chiedo ancora: chi governa?»
«Io – ah… noi amministriamo Narthil per Re Belaur».
«Grazie, signore», mormorò El educatamente, e fece per tornare al suo posto.
L’uomo con la tunica, improvvisamente libero dal vincolo magico, barcollò e quasi cadde, fece tre passi veloci verso la porta, poi si girò e, coltello in mano, sbraitò un incantesimo. Tutti gli avventori dell’osteria spalancarono la bocca, spaventati. La lama del mago e tutte le spade abbandonate sul pavimento si sollevarono all’unisono e sfrecciarono verso la schiena di Elmara in una pioggia d’acciaio letale. Senza voltarsi, la donna mormorò una parola. Le punte tanto prossime a reclamare la sua vita, deviarono e si diressero verso il mago.
«No!», gridò disperatamente l’uomo, afferrando la maniglia della porta. «Che co…»
Le spade lo trafissero inesorabilmente, sollevandolo da terra e portandolo oltre la porta. Cadde, scalciò una volta, poi rimase immobile, le spade simili a un bosco scintillante sulla sua schiena.
Elmara prese il mantello e il sacco. «Vedete? La pietà non abbonda. Tra i maghi in special modo», aggiunse e uscì in strada.
Si incamminò quindi tranquillamente, e iniziò a sbirciare nelle vetrine delle botteghe, con l’aria di chi ha soldi da spendere, mentre numerosi volti curiosi restavano schiacciati contro i vetri della locanda. Non si era allontanata molto quando udì il suono di un corno da nord, in cima alla strada – della roccaforte di pietra di Narthil. Una porta del grande cancello si aprì e si udì uno scalpitio di zoccoli. Ne uscirono un uomo anziano in tabarro cerimoniale e due guardie in armatura che lo seguivano, armate di lance. Elmara li guardò avanzare verso di lei: non scorse traccia di balestre, allora si strinse nelle spalle e si voltò, dirigendosi nuovamente alla taverna.
La strada si riempì rapidamente di abitanti curiosi. «Chi siete, giovane fanciulla?», chiese un uomo con una cicatrice sul naso.
«Un’amica… una sacerdotessa di Mystra in viaggio, originaria di Athalantar», rispose Elmara.
«Una maga?», domandò un altro con tono arrabbiato.
«Una maga rinnegata?», rincarò la dose una donna accanto a lui.
«Nient’affatto», rispose El, poi si rivolse a una donna prosperosa e dall’aspetto stanco, con indosso un grembiule e gonne rattoppate, che la stava guardando a bocca spalancata come se fosse un pesce parlante. «Come va qui a Narthil, signora?»
Presa alla sprovvista dalle sue parole, balbettò per un attimo, e poi rispose amaramente: «Male, ragazza, da quando questi cani di Athalantar sono arrivati e hanno occupato la città. Da allora ci hanno confiscato il cibo e le figlie, e tutto senza neanche chiedere!»
«Già!», assentirono in molti.
«Più crudeli di molti guerrieri?», chiese Elmara, facendo un cenno con la mano verso la fortezza.
La donna alzò le spalle. «Non tanto crudeli, quanto… arroganti. Questi giovani puledri non si impennerebbero tanto facilmente, né distruggerebbero tutto tanto rapidamente, se dovessero trascorrere dieci giorni a casa mia – o di qualunque altra donna! – pulendo e rassettando!»
«Levatevi!», intimò un uomo, e tutta la gente intorno alla giovane indietreggiò all’arrivo dei tre cavalieri. El li attese tranquillamente.
Al vedere la sua imperturbabilità, il vecchio dal tabarro purpureo adorno di margherite, fermò il cavallo ed esclamò: «Io sono Aunsiber, amministratore di Narthil. Voi chi siete per fare incantesimi contro soldati e maghi onesti del regno?»
Elmara annuì educatamente in segno di saluto. «Una che preferirebbe vedere i maghi aiutare il popolo, invece di tiranneggiarlo, che preferirebbe un re il cui governo significasse pace, stabilità, aiuti per i raccolti, non tasse, discordia, e brutalità».
Come ci si poteva aspettare, vi fu un mormorio di assenso tra gli abitanti della città. Il cavaliere guardò a disagio la folla, facendo un passo di lato col cavallo irrequieto. «Un sogno», affermò poi con voce beffarda.
Elmara inclinò la testa. «Per ora sì… ma non è il mio unico sogno».
Il vecchio guardò giù dalla sella alta e chiese: «E quali sono gli altri, giovane sognatrice?»
«Solo uno», rispose dolcemente la donna. «Vendetta». Sollevò entrambe le mani come per fare un incantesimo, e il viso dell’uomo impallidì. Strattonò le redini, spronò il cavallo, e in un trambusto di sbuffi e di zoccoli, si lanciò al galoppo da dove era venuto. Si udirono fischi e grida d’esultanza tra la folla, ma El si voltò senza proferire parola e tornò alla locanda.
«Che cos’ha detto?», chiese un uomo mentre la giovane entrava nella taverna.
Una donna seduta lì accanto si protese ed esclamò ad alta voce: «Non hai sentito? Vendetta».
Poi vide Elmara nella stanza e si zittì. Un silenzio carico di tensione calò nel locale. El sorrise gentilmente alla donna e raggiunse il bancone. «È pronta quella birra?», chiese con tranquillità, e si compiacque nell’udire almeno uno degli uomini dietro di lei ridacchiare apertamente.
Briost non era in gran forma. Uscì impetuoso dalla camera del Gran Consiglio nel momento in cui il messaggero se ne andò. L’apprendista che stava tentando di origliare grazie a un incantesimo imparato di recente, rimase impietrito, l’aria colpevole; il volto del suo maestro era verde di rabbia.
«Va’ ed esercitati a scagliare sfere di fuoco», sbottò il mago, «o qualunque incantesimo a tuo piacimento. Io devo sbrigare una questione per conto del re. Sembra che un mago forestiero abbia avuto l’audacia di uccidere tutti gli apprendisti di Seldinor in una taverna a ovest di Narthil e lui è “troppo occupato” per vendicarli. Pertanto io ho intenzione di tagliare la testa a quell’idiota per la gloria dei signori maghi!»
La mano che scosse Elmara fu delicata ma insistente. Si risvegliò nel letto migliore del Ricovero di Myrkiel e guardò assonnata la donna china sopra di lei. L’ostessa era avvolta solo in una coperta. «Ragazza, ragazza», le sussurrò nell’oscurità, «faresti meglio ad andartene da qui rapidamente, per i boschi. Corre voce che le guardie stiano venendo a prenderti!»
Elmara sbadigliò, si stirò e rispose: «Grazie, siete molto gentile. Ci sarebbe qualche cosa come sidro caldo, e qualche salsiccia?»
La locandiera la guardò fissa. Poi, ciò che avrebbe potuto essere quasi un sorriso, le solcò il volto mentre girava su se stessa e usciva dalla stanza, i piedi nudi visibili nel buio.
Nella grigia oscurità che precede l’alba, la strada tremava sotto gli zoccoli dei cavalli. Sessanta cavalieri di Athalantar, dall’aspetto tenebroso e crudele, chiusi nelle loro migliori armature da combattimento, si dirigevano a ovest, pronti a dare battaglia. Nel mezzo, l’uomo il cui elmo portava le piume da comandante, si rivolse all’individuo che cavalcava accanto a lui.