La donna sorrise guardando la cresta di una collina lontana, mentre la minuscola sagoma scura della sua ospite scompariva oltre la cima. Scosse il capo. Forse gli dei sarebbero stati accanto a quella fanciulla temeraria e l’avrebbero protetta nella sua lotta contro i maghi potenti, e la giovane sarebbe tornata a Narthil un giorno, e avrebbe avuto tempo di raccontare a una locandiera vecchia e grassa tutte le sue avventure… ma più probabilmente ciò non sarebbe mai accaduto.
Asmartha sospirò, si pulì distrattamente le mani nel grembiule e rientrò nella taverna. Ora le conveniva ordinare agli uomini di portare via quei corpi, altrimenti la strada avrebbe emanato un odore nauseabondo prima di sera, e le bestie sarebbero scese in paese per nutrirsi dei cadaveri.
Fu così che un buon uomo brontolone di Narthil si ritrovò chino sul principe morto. Allungò una mano per impossessarsi della spada del guerriero, ma subito dopo si ritrasse impaurito. La spada tremolò, muovendosi autonomamente. Le rune incise sull’acciaio pulsarono e si illuminarono improvvisamente. Poi l’arma si sollevò da terra, come afferrata da mani invisibili, indugiò un istante davanti all’uomo terrorizzato, e volò via, scivolando lentamente nell’aria, di punta e dritta come una freccia scoccata da una balestra. Si diresse a nord-est, verso le colline erbose.
L’uomo l’osservò allontanarsi, deglutì, e mormorò una preghiera a Tempus, Signore delle Battaglie. Dove sarebbero andati a finire, se anche le spade erano magiche? E alla fin fine, che bene aveva fatto quell’arma bizzarra alla carogna che giaceva ai suoi piedi? No, la magia non era cosa di cui fidarsi, mai. L’uomo guardò in basso e contemplò il guerriero morto che fissava il sole con occhi spenti, poi scosse il capo, si sputò sulle mani, e afferrò il Principe Gartos per i piedi. Hmm… la spada era andata persa, ma quegli stivali non erano niente male!
Indisturbata, la spada incantata risalì una collina e proseguì il suo viaggio a nord-est. Un incantesimo operato da lontano le ordinava di ricongiungersi con l’essere di cui per ultimo aveva versato il sangue, una giovane strega finora sconosciuta ai signori maghi. Una donna che aveva sconfitto guardie, messaggeri, maghi, e anche principi di Athalantar – e perciò, doveva morire. La spada continuò a volare, assetata di sangue.
13.
Incantesimi mortali
Rifletti mago arrogante: persino il più potente degli arcimaghi non conosce incantesimi abbastanza potenti per ingannare la morte. Alcuni diventano scheletri… e continuano a vivere nella morte. Il resto di noi trova la tomba, e la nostra cenere non è più gloriosa di quella del prossimo. Pertanto quando intimidisci qualche contadino con le tue sfere di fuoco, ricorda: noi tutti abbiamo incantesimi mortali.
L’estate di quell’Anno dei Fiori Sanguinanti era stata calda e umida, e se gli dei fossero stati parsimoniosi con la pioggia autunnale, ci si poteva aspettare un raccolto abbondante lungo il Fiume Shining.
Phaernos Bauldyn, proprietario dell’Ambletrees Arms, era appoggiato allo stipite della porta e guardava l’ultima luce del sole a ponente oltre le colline occidentali. Una terra magnifica, quella… ma sarebbe stato più felice se non fosse stata governata dai maghi che facevano gli spacconi dovunque andassero, trattando le persone come schiavi, o come bestie… o peggio ancora.
Sospirò. Fintantoché non fossero stati tanto pazzi o arroganti da affrontare gli elfi nella Grande Foresta, incantesimo dopo incantesimo, o da offendere qualche dio e da essere giustiziati sul posto, non riusciva a immaginarsi Athalantar libera. Phaernos aggrottò la fronte, sospirò di nuovo, e si voltò a prendere la candela, poiché si stava facendo buio. Si allungò e accese la lampada sopra la porta, evitando abilmente la cera gocciolante, come faceva da sempre. Mentre abbassava la candela e la spegneva, la vide arrancare lungo la strada, diretta verso di lui: una ragazza sola, alta, magra, dai capelli scuri, fradicia, con i vestiti appiccicati al corpo e il mantello inzuppato, che lasciava dietro di sé un rivolo d’acqua.
«Sei caduta dentro, ragazza?» le domandò, avanzando per offrirle il braccio.
«Ho dovuto attraversare il fiume a nuoto», rispose brevemente lei, e poi sollevò la testa e gli sorrise. Era magra e aveva gli occhi infossati, ma il suo sguardo color grigio-azzurro era vigile e vivace sopra il naso adunco.
Phaernos annuì mentre si voltava per farle strada. «Un letto per la notte?»
«Se potessi asciugarmi davanti al fuoco», rispose, «ma ho poco denaro. Voi siete il padrone della locanda?»
«Sì», rispose Phaernos, aprendo l’ampia porta d’entrata. La sua ospite osservò i vecchi scudi inchiodati sopra di essa e sembrò essere divertita.
«Perché me lo chiedi?», le domandò mentre entravano nel locale scarsamente illuminato. Pochi contadini e abitanti del villaggio erano seduti accanto al fuoco, tra le mani un boccale di birra o una ciotola di brodo. Sollevarono lo sguardo lievemente incuriositi.
«Posso pagarvi con incantesimi», esclamò tranquillamente la ragazza fradicia.
Phaernos si allontanò da lei nel silenzio improvviso e affermò brevemente: «Non siamo abituati ai maghi da queste parti. Molti di loro usano la magia solo per aiutare se stessi».
«Allora quei maghi dovrebbero essere privati dei loro poteri», rispose lei.
«E come credi che sia possibile una cosa del genere, ragazza?», le domandò uno degli avventori seduto accanto al fuoco.
«Ho riscontrato che il modo più efficace è ucciderli il più rapidamente possibile, non lasciando loro il tempo di fare incantesimi», ribatté la donna pacatamente. «Non sono amica dei maghi». Il silenzio che seguì quelle parole fu interrotto solo dal debole gocciolio dei suoi vestiti.
Dopodiché, nessuno la importunò, né le rivolse la parola. Phaernos la condusse senza parlare in cucina, le indicò una panca accanto al focolare, e le porse un mantello. Le cuoche si affaccendarono a fornirle stracci per asciugarsi e qualche avanzo di cibo, ma poi tornarono al proprio lavoro. A Elmara quella pace non dispiacque: era esausta. Due colline oltre Narthil, aveva fatto lo sbaglio di usare un incantesimo che la portasse in un solo passo dal punto in cui era alla collina più distante che riusciva a vedere. La magia le aveva succhiato tutte le energie, sfinendola. Poi, la nuotata attraverso il fiume non aveva migliorato la situazione e, infreddolita com’era, non poteva certo avvolgersi nel mantello e dormire all’aperto.
Elmara si asciugò come meglio poté, si avvolse nel mantello, e si assopì, sognando di giacere tremante in un cespuglio bagnato mentre i maghi sotto forma di lupi ululavano e le passavano accanto, cercandola con mascelle spalancate dai denti affilati.
Era passato molto tempo, quando sentendosi toccare delicatamente, si svegliò; l’oste era chino su di lei. La ragazza si irrigidì e si allarmò, pronta a sferrare un attacco o a fuggire.
Phaernos la guardò con volto inespressivo ed esclamò: «La locanda è chiusa per la notte e tutti i clienti sono andati a casa; sei l’unica ospite per stanotte. Dimmi come ti chiami e cosa intendevi per… pagare con incantesimi». Alle sue parole, due delle donne si avvicinarono per ascoltare.
«Sono Elmara», rispose, «vengo da lontano. Non sono una maga, ma so fare qualche incantesimo. Vorreste una cantina più larga?»
Phaernos la guardò in silenzio per un attimo, e poi il suo volto si distese in un sorriso. «Una fogna più capiente sarebbe più utile».
«Posso fare entrambi», asserì Elmara alzandosi, «se mi lasciate dormire qui stanotte».
Phaernos annuì. «Affare fatto, ragazza… se mi segui, ti mostrerò un letto in cui nessun mago ti potrà trovare».