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Prendendo il pugnale meno amato dei tanti che possedeva, si ferì i palmi di entrambe le mani fino a farli sanguinare e tenne il coltello proteso orizzontalmente di fronte a lei, immobilizzato fra le mani sanguinanti.

Mentre mormorava le parole magiche, poteva sentire il sangue colarle dai polsi e le forze scemare, sottratte dall’incantesimo.

Tremante per la debolezza, Elmara sollevò il pugnale fino a farlo scintillare alla luce lunare e lo guardò scurirsi e sbriciolarsi lentamente. Quando si frantumò in un mucchio di schegge arrugginite, si pulì le mani sfregandole e si accasciò a terra, soddisfatta. Prima dell’alba, ogni pezzo di metallo tra lei e la foresta sarebbe stato ruggine polverosa e inutilizzabile. Ciò avrebbe dato ai maghi qualcosa a cui pensare. Se anche avessero pensato che la causa era la magia degli elfi, l’attacco alla Grande Foresta non si sarebbe potuto attuare.

Elmara strinse i pugni e volse lo sguardo alla luna, sussurrando un’altra preghiera a Mystra, per curarsi le ferite. Non ci volle molto tempo, ma quand’ebbe terminato si sentì stremata. Tornò dove aveva lasciato il sacco. Doveva rimettersi almeno il mantello e gli stivali, e scomparire, prima che…

«Oho! Che cos’abbiamo qui, eh?»

La voce era roca ma allegra, tenuta bassa per evitare di essere udita. «Eh eh», il suo proprietario uscì ridacchiando dall’ombra della notte e l’afferrò fermamente per un braccio: «Ora capisco perché Othglar non aveva fretta di fare rapporto… vieni qui, fanciulla, e dammi un bacio».

Elmara si sentì trascinata in un abbraccio. Le labbra invisibili che la baciarono erano contornate di barba ispida e solleticante, ma quando poté di nuovo respirare non si ritrasse. Doveva evitare a tutti i costi che il soldato desse l’allarme.

«Oh, sììì», mormorò, come aveva fatto molto tempo addietro quella ragazza ad Hastarl. «Dorme, ora, e mi ha lasciato tanto sola…»

«Oh-oh!», ridacchiò ancora la guardia. «Gli dei sono davvero generosi stanotte!» Le sue braccia si strinsero attorno a lei.

El soffocò una reazione di panico e mormorò: «Baciatemi ancora, Signore». Mentre quelle labbra ispide cercavano le sue, Elmara mise un braccio attorno ai muscoli contratti della schiena dell’uomo, rabbrividì per il gusto della birra pessima che il soldato aveva bevuto, e trovò finalmente ciò che stava cercando: il pugnale infilato nella cintura. Lo sganciò e tenne le labbra dell’uomo attaccate alle sue mentre, con l’impugnatura del coltello, gli assestava un colpo alla nuca con tutta la sua forza.

La guardia emise un suono di sorpresa e si accasciò a terra, atterrando pesantemente nella boscaglia. L’impugnatura del coltello era umida e appiccicosa; Elmara soppresse un improvviso conato di vomito e lasciò cadere l’arma. Far rotolare l’uomo inerte oltre la roccia fu molto faticoso, e le costò sudore, nonostante fosse nuda. «Sei stato fantastico», gli sussurrò ardentemente all’orecchio, poi lo spinse giù dalla scarpata.

El si infilò gli stivali e fece un passo sul muschio morbido prima di legarseli saldamente ai piedi. Poi si avviò furtivamente nell’oscurità, tornando dalla strada per dove era venuta e sperando di non incontrare postazioni di guardia o pattuglie. Le rimaneva qualche incantesimo, certo, ma sarebbe stata a malapena in grado di sferrarlo. Non osò attraversare l’accampamento per raggiungere la foresta – anche se vi fosse riuscita per qualche miracolo degli dei, gli elfi avrebbero potuto ucciderla prima di sapere chi fosse.

No, sarebbe stato meglio tornare al luogo della dea, accanto a quel piccolo laghetto, e cercare Braer da lì, anche se quella zona era situata molto più a ovest.

Inciampando per la stanchezza, Elmara discese lentamente la collina nell’oscurità, domandandosi quanto tempo sarebbe passato prima che fosse svenuta. Sarebbe stato interessante vedere…

Alla fine del secondo giorno nel fienile, la giovane era ancora debole come un gattino appena nato. Era caduta due volte dalla scala, e si era arrampicata a fatica fin lassù, con un avambraccio dolorante, forse rotto. Ora era guarito, ma la preghiera che l’aveva risanato le aveva lasciato un mal di testa lancinante, un senso di vuoto e di nausea, e per riprendersi aveva dormito a lungo.

Nemmeno in quel momento si sentiva pronta a muoversi. «Mystra, proteggimi», mormorò, e si riassopì.

«Per tutti gli dei!»

La voce allarmata la fece svegliare di soprassalto. Elmara voltò la testa.

Il volto barbuto di un contadino meravigliato la stava osservando a mezzo metro di distanza, una lanterna tremolante nella mano. Si sforzò di non ridere per la sua espressione; sicuramente anche lei avrebbe avuto la stessa reazione se avesse trovato una ragazza con indosso solo un mantello e gli stivali nel suo fienile. Ha avuto una reazione dignitosa, pensò.

Quando la donna non riuscì più a trattenere il riso, il contadino si portò nervosamente una mano alla bocca, la trovò aperta, la chiuse, e si schiarì la gola emettendo lo stesso rumore che le pecore facevano nei pascoli sopra Heldon. Di nuovo Elmara scoppiò a ridere.

L’uomo sbatté le palpebre, trovando evidentemente la sua allegria tanto sconcertante quanto la sua presenza, e mormorò: «Uh… er… aghumm. Buona sera, uh… signorina».

«Che la fortuna sia con la fattoria e con tutto ciò che contiene», esclamò formalmente El, rotolandosi per averlo di fronte. Il contadino arrossì, scostò riluttante gli occhi, e scese frettolosamente dalla scala.

Oh, sì – questi. Elmara si avvolse nel mantello e si mise in ginocchio per guardare giù oltre il bordo del fienile. L’uomo barbuto sollevò lo sguardo come se si aspettasse che la donna si trasformasse improvvisamente in un gatto della foresta e balzasse su di lui. Sollevò un forcone e lo brandì con presa incerta.

«Ch-chi siete, ragazza? Come siete arrivata qui? State… state… bene?»

La fanciulla esile dal naso adunco gli sorrise debolmente, e affermò: «Sono una nemica dei maghi malvagi. Nascondetemi, se volete».

Il contadino la guardò terrorizzato, deglutì, si drizzò e ribatté: «Mi darò da fare affinché stiate al sicuro». Poi aggiunse goffamente: «Se c’è qualche cosa che io… o i miei uomini… possiamo fare… uh, non osiamo sfidarli, con i loro incantesimi e il resto…»

El gli sorrise di nuovo. «Mi avete offerto rifugio e parole amichevoli, e per me è sufficiente. È tutto ciò che molti in Athalantar necessitano, ma non ricevono».

L’uomo sogghignò improvvisamente, fiero e compiaciuto come se fosse stato nominato cavaliere, e si girò su se stesso. «Torno subito, ragazza», esclamò esitante.

«Non dite a nessuno che sono qui!», gli sussurrò con urgenza Elmara.

L’agricoltore annuì vigorosamente e uscì. Poco dopo tornò con una tazza di latte fresco, un avanzo di pane, e una fetta di formaggio.

«Vi ha visto qualcuno?», gli domandò la giovane, col mento appoggiato al bordo del fienile.

L’uomo scosse il capo. «Pensate che voglia guardie o maghi per tutta la fattoria, che bruciano ciò che non distruggono, e usano la magia per farmi parlare? Niente paura, fanciulla!»

Elmara lo ringraziò. Lui non vide la sua mano, ardente di fuoco sotto il mantello, recuperare il suo aspetto normale. «Che gli dei siano con voi questa notte», esclamò con voce rauca e commossa.

L’uomo spostò i piedi, fece un inchino imbarazzato, e rispose: «E con voi, ragazza. E con voi». Sollevò la mano in segno di saluto come erano soliti fare gli uomini nei campi, e si affrettò a uscire.

Una volta uscito, Elmara si coprì col mantello e si mise a guardare dall’abbaino con occhi scintillanti. Osservò la luna levarsi alta nel cielo, e pensò a molte cose.

Se ne andò prima dell’alba: era meglio essere prudenti.

Il suo viaggio a ovest era stato rapido. Si allontanava in caso qualcuno avesse denunciato la sua presenza. Le truppe stavano abbandonando Far Torel, verso le postazioni più sicure del sud. Sembrava che i piani dei maghi di versare sangue elfo fossero stati abbandonati… almeno per il momento. Quelle notizie rallegrarono Elmara nel suo viaggio, mentre collezionava vesciche che curava solo quando non riusciva più a sopportarle.