«Hastarl?», ringhiò Anauviir, sbalordito.
«Sì… prima che passino dieci giorni, intendo attaccare Athalgard. E tutto ciò che mi manca sono degli abili guerrieri». Guardò intorno a sé gli uomini sfregiati, dalla barba lunga. «Siete con me?»
Uno dei cavalieri sollevò un paio di occhi duri per incontrare i suoi. «Come facciamo a sapere che non è una trappola? O, se non lo è, che i tuoi incantesimi sono abbastanza potenti da non fallire una volta dentro il castello, senza più una via d’uscita?»
«Ero del tuo stesso parere», rispose Ruvaen dall’alto, «e gli ho chiesto di darcene prova. Ha ucciso due signori maghi fino a oggi – e con lui opera un’altra maga. Non temete che la sua magia fallisca».
«Inoltre», aggiunse rudemente Helm, «conosco il principe dal giorno in cui il drago del mago reale uccise i suoi genitori, e mi ha giurato – ancora ragazzino – che un giorno avrebbe ucciso tutti i signori maghi».
«È giunto il tempo», affermò El con voce di ferro. «Posso contare sugli ultimi cavalieri di Athalantar?»
Si levarono mormorii e uno scalpiccio di piedi. «Se mi è permesso», esclamò Anauviir a disagio, «una domanda… come ci proteggerai contro gli incantesimi di quelle carogne? Colgo volentieri la possibilità di abbattere qualche mago e i suoi soldati – ma come faremo ad avvicinarci abbastanza per avere quell’opportunità?»
«Gli elfi verranno con voi», affermò la voce di Ruvaen. «La nostra magia vi nasconderà o vi proteggerà ogniqualvolta sarà possibile, pertanto potrete finalmente stare faccia a faccia col nemico». Si udirono brontolii di assenso, ma Helm fece un passo avanti e alzò una mano intimando il silenzio.
«Io vi ho guidati, ma ora ognuno deve scegliere liberamente… La morte è fin troppo probabile, per quanto qui si sprechino parole grandiose». Il vecchio cavaliere sputò pensierosamente tra le foglie ai suoi piedi, e aggiunse: «Tuttavia pensateci bene: la morte arriverà anche se ci rifiutiamo e continuiamo a nasconderci nella foresta. I signori maghi ci stanno eliminando, uno alla volta. Rindol, Thanask; voi sapete quanti guerrieri sono caduti… e non passa settimana che i soldati non ci cerchino in ogni grotta e in ogni nascondiglio. Nel giro di una, o al massimo due, estati, ci avranno uccisi tutti. Le nostre vite andranno in ogni caso perdute – perché non sacrificarle allora per forgiare una spada che possa effettivamente portare con noi nella tomba uno o due maghi?»
I guerrieri annuirono col capo e sollevarono le armi. Helm si rivolse a Elminster con un sorriso triste.
«Guidaci, Principe», invitò.
El si guardò intorno. «Siete con me?», domandò semplicemente. Si udì un coro d’assenso.
El si protese ed esclamò: «Ho bisogno che andiate tutti ad Hastarl – a due a due, o in piccoli gruppi, non tutti insieme, per non attirare l’attenzione di qualche mago vigile ed evitare che vi uccida tutti in una volta. Appena fuori dalle mura, a monte del fiume, c’è una cava in cui bruciano corpi e rifiuti; spesso i mercanti si accampano nelle vicinanze. Riunitevi là prima dello scadere dei dieci giorni e cercate me o un uomo che si fa chiamare Farl. Vestitevi come venditori ambulanti o mercanti; gli elfi hanno vino di menta che fungerà da merce…» El sorrise loro e aggiunse seccamente: «Vedete di non berlo tutto prima di arrivare in città».
Stavolta i guerrieri risero di gusto e i loro occhi brillarono di entusiasmo.
«C’è una carovana di scorte che sta per lasciare la fortezza di Heldo, diretta a est», affermò Helm con eccitazione. «Stavamo discutendo se valesse la pena di rischiare… ci fornirà abiti e cavalli, bestie da soma e carri!»
«Bene!», esclamò El, sapendo che non lo avrebbe potuto impedire nemmeno se lo avesse voluto. Nei loro occhi ardeva la fiamma della battaglia, una fiamma che non si sarebbe spenta finché loro – o i signori maghi – non fossero stati tutti morti. Si levarono grida di entusiasmo. Helm guardò a uno a uno i suoi uomini mentre sguainava la vecchia spada e la sollevava al cielo.
«Per Athalantar, e per la libertà!», gridò, e la sua voce echeggiò fra gli alberi. Venti spade scintillarono in risposta mentre i guerrieri ripetevano le sue parole in un coro stonato. D’un tratto erano tutti spariti, al galoppo tra gli alberi, verso sud, con le spade sguainate lucenti in mano, Helm in testa.
«Grazie, Ruvaen», esclamò Elminster rivolto alle foglie soprastanti. «Proteggili nel loro cammino. Lo farai?»
«Naturalmente», rispose la voce melodiosa. «Questa è una battaglia che nessun elfo o uomo fedele ad Athalantar si dovrebbe perdere… e dobbiamo vigilare attentamente nel caso vi siano altri traditori fra i cavalieri».
«Sì», affermò El seriamente. «Non ci avevo pensato. Ben detto. Io vado». Fece un breve gesto di saluto con la mano e scomparve.
I due elfi discesero dall’albero per assicurarsi che uno dei falò accesi dai cavalieri fosse realmente spento. Ruvaen guardò a sud, scosse la testa, e sopì gli ultimi riccioli di fumo.
«Popolo frettoloso», esclamò l’altro elfo, scuotendo a sua volta il capo. «La fretta non produce mai nulla di buono».
«Nulla di buono», assentì Ruvaen. «Tuttavia governerà questo mondo molto presto, con temerarietà e abbondanza».
«Come saranno i Regni allora… mi domando», ribatté l’altro con una nota di pessimismo, guardando a sud attraverso gli alberi da cui erano passati i guerrieri.
Otto giorni più tardi, il sole dorato della sera vide due corvi posarsi su un albero rachitico appena dentro le mura di Hastarl. I rami ondeggiarono sotto il peso dei volatili per un istante, poi, all’improvviso, tornarono vuoti. Due ragni zampettarono lungo il tronco segnato e ricoperto di fenditure, ed entrarono nelle crepe del muro di una taverna.
La cantina sotto il livello della strada era sempre deserta a quell’ora – il che non guastava, poiché i due ragni raggiunsero un angolo ammuffito, si allontanarono leggermente… e improvvisamente due donne bitorzolute, basse e robuste, di una certa età, si ritrovarono l’una di fronte all’altra. Si scrutarono a vicenda i capelli bianchi scompigliati, i vestiti laceri, e i corpi grassocci e cadenti – e simultaneamente si misero a grattarsi.
«Stai magnificamente, mia cara», esclamò sardonicamente El con voce tremula.
Myrjala gli diede un buffetto sulla guancia e starnazzò: «Oh, sei sempre molto dolce, fanciulla!»
Insieme si incamminarono ondeggianti attraverso le cantine, in cerca delle scale per salire nelle stalle.
Seldinor Stormcloak era seduto nel suo studio, circondato da scaffali zeppi di spessi tomi, e corrugò la fronte. Da due giorni stava tentando di attaccare magicamente le labbra screpolate di una donna – tutto ciò che rimaneva dell’ultima prostituta che aveva catturato per i suoi piaceri – su un golem incompleto in piedi di fronte a lui. Poteva cucirle alla carne cadente color grigio-porpora attorno al buco in cui aveva inserito i denti, sì… Farle muovere ancora, come avrebbero dovuto e non per conto proprio, si stava rivelando tuttavia un problema. Perché, dopo tanti golem riusciti? Perché quello era tanto disgraziato?
Sospirò, tolse le gambe dalla scrivania, e balzò in piedi. Se avesse lasciato in sospeso l’incantesimo della deformazione della carne e lo avesse completato mentre scagliava fulmini alla creatura… sì, avrebbe fatto in tal modo. Sollevò le mani e iniziò a pronunciare sillabe complicate con la rapidità di chi possiede molta esperienza.
Balenarono raggi di luce, e il mago si protese ansiosamente per guardare le labbra fondersi con la carne grezza e nodosa della testa senza volto. La bocca tremò. Seldinor sorrise a denti stretti, ricordando l’ultima volta che gliel’aveva visto fare… quando la donna l’aveva supplicato di non ucciderla.
Poi lanciò il suo incantesimo speciale, quello che avrebbe collegato il golem con il cervello di un servo privo di membra che aveva preparato la notte precedente. Appeso nella sua gabbia, questi lo guardò muto e terrorizzato per un istante, prima che l’incantesimo facesse effetto e la luce nei suoi occhi si spegnesse. Adesso era tutto sistemato, finalmente…