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Le labbra si mossero sulla faccia vuota, abbozzarono un sorriso subito ricambiato felicemente da Seldinor, ed esclamarono la parola: «Padrone!»

Il mago si avvicinò trionfante. «Sì? Mi conosci?»

«Benissimo», rispose il golem sibilando. «Benissimo». E le braccia della creatura si sollevarono con velocità terrificante e lo presero per la gola. Annaspando, le mani che si agitavano nell’aria nel tentativo di effettuare incantesimi, Seldinor ebbe appena il tempo di guardare terrorizzato un occhio magico apparso sulla faccia spoglia del golem ammiccargli, prima che la creatura gli spezzasse il collo come fosse un ramoscello. Dando per un attimo libero sfogo alla sua forza bruta, il mostro strappò la testa del mago in una pioggia di sangue.

Occhi vecchi e saggi guardarono la testa di Seldinor veleggiare nel suo studio. Un paio di labbra si assottigliò in un sorriso di soddisfazione. Il mago passò una mano sulla sfera di cristallo e si allontanò. Era tempo di prepararsi contro quella minaccia, ora che il suo odiato nemico era morto, e in maniera tanto appropriata, peraltro…

Sghignazzò, mormorò una parola che tenne a bada i fulmini guardiani, e afferrò la maniglia in cima a una massiccia scala di legno. La porta si aprì al suo tocco, e dalla cavità oltre a essa il mago estrasse due bacchette magiche, le infilò su per le maniche, nelle guaine cucite nella sottotunica, e poi prese un piccolo pezzo di stoffa piegato. Lo aprì cautamente e lo abbassò sulla sua testa: uno zucchetto decorato da tante minuscole gemme. Tornò nella stanza del cristallo, chiuse gli occhi, e si concentrò. Granelli minuscoli di luce iniziarono a scintillare e a pulsare nelle gemme.

E lampi si rincorsero tra queste mentre il vecchio pronunciava parole silenziose e disegnava sigilli invisibili finché lo zucchetto non divenne invisibile. Quando scomparve interamente, il mago aprì gli occhi. Le sue pupille erano diventate di un rosso brillante.

Fissando ciecamente il vuoto, il vecchio parlò nel cristallo. «Undarl. Ildryn. Malanthor. Alarashan. Briost. Chandarn».

Ogni nome fece apparire un’immagine nell’aria sopra la sua testa. Sollevando lo sguardo, vide sei maghi avvicinarsi ai propri cristalli e porre le mani su di essi. Adesso erano suoi. Sorrise, lentamente e freddamente, mentre la magia della sua corona catturava la loro volontà.

«Parla, Ithboltar», esclamò un mago bruscamente.

«Che cosa succede, Maestro?», chiese un altro, più rispettosamente.

«Colleghi», iniziò tranquillamente, e poi aggiunse, «apprendisti». Non guastava mai ricordare loro che cos’erano. «Due maghi stranieri ci minacciano». Dalla sua mente scaturirono immagini del giovane dal naso adunco e della donna alta e snella dagli occhi neri.

«Due? Un ragazzo e una donna?», domandò beffardo Chandarn.

«Domandati, giovane e saggio mago», affermò Ithboltar, le sue parole erano gentili e precise, «dov’è ora Seldinor. O Taraj? O Kadeln? E poi rifletti».

«Chi sono quei due?», chiese un altro mago laconicamente.

«Rivali del Calimshan, forse, o studenti di Coloro che Fuggirono da Netheril e si diressero nel lontano sud… nonostante abbia già visto la donna in una o due occasioni, percorrere le terre occidentali».

«Io ho visto il ragazzo», affermò improvvisamente Briost, «a Narthil… e pensavo fosse morto».

«E ora stanno uccidendo noi, uno per volta», ribatté Ithboltar con calma soave. «Non scherzi più, Chandarn? Dobbiamo agire insieme contro di loro prima che colpiscano ancora».

«Ah, Maestro, un’altra difesa disperata del regno?» La voce di Malanthor era esasperata. «Non può aspettare fino a domani?» Tutti lo videro guardarsi alle spalle e sorridere per rassicurare qualcuno che non riuscirono a scorgere.

«Stai ancora facendo divertire i tuoi apprendisti, Malanthor?» sbuffò Briost.

Malanthor gli fece un gesto volgare e indietreggiò di un passo dal cristallo.

«A domani, allora», affermò rapidamente Ithboltar. «Parlerò domani con tutti voi». Interruppe il contatto, scuotendo la testa. Da quando tutti i suoi studenti, un tempo ansiosi di piegare il mondo alla loro volontà, erano forse diventati degli idioti, smidollati e viziosi? Erano sempre stati avventati e arroganti, ma ora…

Si strinse nelle spalle. Forse, avrebbero riconosciuto la scorrettezza dei loro modi, se i due stranieri avessero continuato a eliminare signori maghi. Perlomeno ora poteva obbligare i maghi di Athalantar a battersi per la corona; in tal modo quei nemici non li avrebbero colti da soli e alla sprovvista. E nulla fuorché un dio, avrebbe potuto sperare di sconfiggere la potenza magica dei signori maghi di Athalantar coalizzati. E gli dei interessati alle sorti del Regno del Cervo sembravano scarseggiare in quei giorni.

«Sì», esclamò Elminster a bassa voce. «In quest’edificio». Braer e uno degli altri elfi annuirono silenziosamente, e avanzarono per toccare le spalle di El. Mentre assumeva le sembianze di un fantasma, li udì mormorare lievemente sortilegi di copertura più potenti che mai.

Solo loro potevano ancora udirlo, quindi li ringraziò prima di balzare giù dal tetto e volare nel chiaro di luna fino alla finestra sottostante. Un solo amuleto brillava alla sua vista da mago, ma i suoi occhi esperti videro di più: una trappola che Farl aveva armato in altri luoghi quando erano compagni. Una pesante mannaia appesa a un filo si sarebbe abbassata sulla testa di chiunque avesse osato entrare dalla finestra. La forma immateriale di Elminster la oltrepassò senza problemi e, una volta nella stanza, si spostò senza pensare da un lato della finestra, per evitare di stagliarsi nella luce lunare – e per evitare i dardi intinti nel sonnifero pronti a scattare se fosse stato calpestato il pavimento sotto il davanzale.

Gli elfi avevano reso la sua sagoma immateriale completamente invisibile; Elminster sorvolò la stanza verso una russata familiare. Provenivano da un letto a baldacchino chiuso, più grande di tanti altri visti fino ad allora. Il principe sollevò le sopracciglia sorpreso di tanta ricchezza. Farl si era sicuramente fatto una posizione.

Vi era un altro filo-trappola appena dentro le tende. El scivolò oltre e si mise comodamente seduto ai piedi del letto. Gli occupanti avevano gettato da parte le coperte in quella notte calda, e giacevano scoperti: Farl in posizione prona, un braccio allungato possessivamente su una donna piccola e liscia, rannicchiata contro di lui: Tassabra.

Elminster la guardò desideroso per un momento. La sua bellezza, la sua intelligenza, e la sua gentilezza l’avevano sempre eccitato. Ma… tutti fanno delle scelte, e lui aveva deciso di abbandonare quella vita. Almeno lei e l’amico avevano trovato insieme la felicità, e non erano morti sotto le spade dei Moonclaw.

Avrebbero certo potuto trovare la morte nelle notti a venire, naturalmente, a causa sua. Il principe sospirò, pronunciò una parola che l’avrebbe reso visibile e udibile, ed esclamò piano: «Lieto di rivederti; Farl. Buona sera, Tass». Il russare di Farl cessò bruscamente e Tassabra si irrigidì, svegliandosi immediatamente. La sua mano scivolò sotto il cuscino, in cerca del pugnale nascosto, come presumeva El.

«Calma», affermò Elminster, «non voglio farvi del male. Sono Eladar, e sono tornato a chiedervi aiuto per salvare Athalantar».

Anche Farl si era svegliato. Balzò a sedere e annaspò, bocca aperta, mentre Tassabra emetteva un gridolino di sorpresa e si protendeva per guardarlo. «Eladar! Sei tu!» Si lanciò in avanti per abbracciarlo, e cadde attraverso la sua figura seduta, per atterrare sugli avambracci all’estremità del letto. «Cosa?»

«Un’emanazione, solo un’immagine», le spiegò Farl, alzandosi col pugnale in mano. «El, sei davvero tu?»