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Nel nome di un regno Si fanno molte cose crudeli. Nel nome dell’amore Si ottengono cose più giuste.
Halindar Droun, Bardo di Beregost, dalla ballata Lacrime infinite.
Anno della Luna Marciarne

Le parole del signore mago fecero mordere le labbra a Tassabra. Si irrigidì, in ascolto, le sue dita a pochi centimetri dal bracciale luminoso.

«È qui con me», continuò il mago Alarashan quasi giovialmente mentre guardava maliziosamente la tremante Nanatha, «e insiste che la donna si è rivelata essere il mago reale… e Undarl l’ha anche salutata prima di andarsene, portandosi l’altro con sé».

«Sembra quasi impossibile». La voce vecchia e aspra proveniente dal cristallo si fece più alta. «Portamela immediatamente».

Alarashan chinò il capo. «Naturalmente, Maestro», rispose afferrando la donna per un polso. «Sarà fatto».

Toccò il cristallo, mormorò una parola, ed entrambi scomparvero. Tassabra arrischiò un’occhiata oltre il bordo del tavolo per guardare l’aria vuota in cui si trovavano i due un momento prima.

Era sola. Sospirò e poi scrollò le spalle, infilò nel sacco il bracciale e lo scettro che aveva adocchiato prima, e si voltò, poi tornò indietro, rivolse un sorriso malizioso al cristallo, e infilò anch’esso nel sacco.

«Fatto», esclamò gaiamente, e sentì il formicolio di un incantesimo pervaderle il corpo mentre l’ombra dell’elfo la riportava a casa.

Gli ultimi pallidi raggi di luna illuminavano il cortile ghiaioso quando Hathan lo attraversò, diretto alla torre in cui lo attendeva la sua stanza degli incantesimi. Quegli inutili idioti di apprendisti avrebbero fatto meglio ad attenderlo pronti intorno al tavolo, quando sarebbe arrivato… Gli incantesimi che permettevano di saltare lontano comportavano sempre un rischio, anche senza tre giovani bacchette ambiziose e i loro furbi complotti…

Hathan si irrigidì, la gamba a mezz’aria, e si fermò bruscamente. Impallidì, e poi si voltò e guardò verso la torre più alta di Hornkeep, aggrottando la fronte per concentrarsi. Non aveva mai udito il Maestro suonare tanto insistentemente; doveva essere accaduto qualcosa.

In una stanza scura in cima a quella torre, un’acqua luminosa schizzava in tutte le direzioni. I suoi riflessi danzavano sul viso assorto di Undarl Cavalcadrago, Mago Reale di Athalantar.

I grifoni si agitavano nell’acqua, lottando contro i suoi incantesimi. Se solo fosse riuscito a farli accoppiare in quella tinozza di fluidi incantati di granchio gigante, sarebbero bastati pochi ulteriori incantesimi per creare ciò che voleva. Un esercito di assassini volanti dal petto corazzato, al suo servizio… e avrebbe fatto il primo passo oltre quello che gli stregoni più potenti della sua famiglia avevano raggiunto. E lassù, gli dei sapevano che si stava stancando di aspettare. Undarl sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia, ascoltando l’acqua straripare dai bordi della vasca e schizzare il muro.

Non avrebbe sprecato ancora molti giorni lì, con quel Seldinor bacialucertole e gli altri, tanto anelanti al suo trono… Undarl si irrigidì quando il pensiero di Hathan lo trafisse. La chiamata era forte perché il suo apprendista più anziano era giù nel cortile, ed era anche molto eccitato e un po’ spaventato. Doveva sicuramente avere mal di testa. Il mago reale ascoltò, invitò brevemente Hathan a tornare ai suoi affari, e interruppe il contatto.

Uscì a grandi passi dalla stanza, dimenticandosi delle creature che continuavano a spruzzare e a far gorgogliare l’acqua nella tinozza alle sue spalle. Undarl si affrettò lungo un passaggio buio e giunse in una stanza particolare, posò una mano sulla parete nuda e pronunciò una parola. Il muro si spalancò con un debole scricchiolio; il mago si protese nell’oscurità antistante, tastò il coperchio di ferro, e appoggiò una mano sopra. Questo emanò un breve bagliore attorno alla mano, e si aprì, rivelando un interno debolmente illuminato. Undarl ne estrasse quattro bacchette magiche, se le infilò nella cintura, e frugò in una tasca sul coperchio dello scrigno. Prese una manciata di gemme, chiuse lo scrigno e il muro con due brevi gesti e una parola, e proseguì lungo il corridoio.

Uno dei suoi apprendisti più giovani sollevò lo sguardo, sorpreso, dalla pergamena che stava copiando. «Signor Maestro?», chiese incerto.

Undarl lo oltrepassò senza una parola e aggirò una scultura a quattro braccia, acquattata sul suo basamento, per salire le scale oltre a essa; conducevano a un balcone polveroso, raramente usato, sul quale, fra strani oggetti di filo metallico, di lamine incurvate e di vetro scintillante, si ergeva un piedistallo di pietra spoglio. Il mago reale si fermò di fronte a esso, vi depose la manciata di gemme, tracciò un certo segno intorno alle pietre con un dito che lasciava dietro di sé una traccia luminosa, e mormorò una cantilena lunga e complicata, a bassa voce.

L’apprendista si sollevò dalla sedia per vedere meglio che cosa stesse facendo Undarl, e rimase impietrito in quella goffa posizione, oscillando, quando l’incantesimo fece effetto.

Il mago sorrise a denti stretti e lasciò la stanza. Tre locali più avanti trovò un altro apprendista disteso scompostamente sul pavimento, una chiave che non avrebbe dovuto avere era caduta dalla sua mano, e con l’altra teneva una pergamena la cui lettura gli era stata proibita. Ben gli stava.

L’incantesimo che aveva fatto calare il sonno delle età sarebbe durato finché Undarl non vi avesse posto termine, finché il piedistallo non fosse crollato o non si fosse sgretolato rompendo il sigillo, o finché la magia non avesse consumato le gemme – vale a dire un migliaio di inverni e forse più. Tutti coloro che fossero entrati, eccetto lui, nella torre del Cavalcadrago sarebbero caduti in un sonno profondo, che li avrebbe mantenuti immutati mentre il tempo intorno a loro trascorreva inesorabilmente.

Forse li avrebbe lasciati a lungo in tale stato e si sarebbe assentato per un po’ dalla torre, per vedere se Seldinor, o altri rivali ambiziosi, fossero stati tentati di entrarvi, cadendo in trappola. Sarebbe stato poi un gioco da ragazzi fare in modo che l’incantesimo che avrebbe posto fine al sonno avesse fatto altrettanto con la loro vita, senza dar loro il tempo di difendersi.

Assorto nei suoi pensieri, Undarl scese la scala di pietra ventosa e uscì nel cortile, le armature vuote, fluttuanti sollevarono le loro alabarde per lasciarlo passare. «Anglathammaroth!» chiamò. «A me!»

Un passo più oltre, ed era scomparso. Quando l’ombra enorme investì il cortile un attimo dopo, tutto ciò che trovò furono pochi granelli di luce scemanti. Sbatté una volta le ali, e un rombo di tuono echeggiò fra le Colline del Corno, poi salì verso le stelle, virò, e volò verso sudest.

Il profumo caldo e dolce del pane raggiunse le narici dei soldati. Annusarono compiaciuti e sfondarono la porta della bottega del fornaio, dirigendosi direttamente verso Shandathe, china su tegami di pagnotte messe a raffreddare. Una guardia l’afferrò per il braccio; la donna sollevò lo sguardo e si mise a gridare.

Suo marito uscì allarmato dalla porta della cucina. Fece due passi rapidi e furiosi verso la moglie che si agitava, ma fu subito fermato da due spade puntate alla gola.

«Stai indietro, tu!», ordinò uno dei soldati che impugnavano le armi.

«Che cosa st…»

«Taci! Stai indietro!», ringhiò un altro, afferrando una pagnotta dalla casseruola più vicina. «Ci prenderemo anche questo».

«Shandathe!», ruggì il fornaio, mentre la punta delle spade lo faceva indietreggiare di un passo.

«Stai indietro, tesoro!», singhiozzò la moglie mentre veniva trascinata rudemente verso la porta. «Indietro, o ti uccideranno!»

«Perché mi state facendo questo?», ringhiò Hannibur perplesso.

«Il re ha visto tua moglie e le è subito piaciuta. Dovresti esserne onorato», rispose un soldato con umorismo crudele. Un altro, da dietro, assestò un pesante rovescio alla nuca del fornaio. Hannibur aprì la bocca in un ultimo grido strascicato, e cadde di faccia sul pavimento…