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- Dove ci porti, fratello caro, dove porti i tuoi amati fratellini?

- Ora vedrete.

Li portò alla stazione, li ficcò in treno legati come stavano e per tutto saluto disse loro: - Andatevene, e non fatevi più rivedere da queste parti. Mi avete ingannato abbastanza. Adesso il padrone sono io.

Il treno fischiò, le ruote si mossero, ma i tre furbi fratellini se ne stettero buoni buoni al loro posto e nessuno li ha rivisti mai più.

Il naso che scappa

Il signor Gogol ha raccontato la storia di un naso di Leningrado, che se ne andava a spasso in carrozza e ne combinava di tutti i colori.

Una storia del genere è accaduta a Laveno, sul Lago Maggiore. Una mattina un signore che abitava proprio di fronte al pontile dove si prendono i battelli si alzò, andò in bagno per farsi la barba e nel guardarsi allo specchio gridò:

- Aiuto! Il mio naso!

Il naso, in mezzo alla faccia, non c'era più, al suo posto c'era tutto un liscio. Quel signore, in vestaglia come stava, corse sul balcone, giusto in tempo per vedere il naso che usciva sulla piazza e si avviava di buon passo verso il pontile, sgusciando tra le automobili che si stavano imbarcando sulla motonave traghetto per Verbania.

- Ferma, ferma! - gridò il signore. - Il mio naso! Al ladro, al ladro!

La gente guardava in su e rideva:

- Le hanno rubato il naso e le hanno lasciato la zucca? Brutto affare.

A quel signore non rimase che scendere in strada e inseguire il fuggitivo, e intanto si teneva un fazzoletto davanti alla faccia come se avesse il raffreddore. Purtroppo arrivò appena in tempo per vedere il battello che si staccava dal pontile. Il signore si buttò coraggiosamente in acqua per raggiungerlo, mentre passeggeri e turisti gridavano: Forza! Forza! Ma il battello aveva già preso velocità e il capitano non aveva nessuna intenzione di tornare indietro per imbarcare i ritardatari.

- Aspetti l'altro traghetto, - gridò un marinaio a quel signore, - ce n'è uno ogni mezz'ora!

Il signore, scoraggiato, stava tornando a riva quando vide il suo naso che, steso sull'acqua un mantello, come San Giulio nella leggenda, navigava a piccola velocità.

- Dunque non hai preso il battello? E stata tutta una finta? - gridò quel signore.

Il naso guardava fisso davanti a sé, come un vecchio lupo di lago, e non si degnò neanche di voltarsi. Il mantello ondeggiava dolcemente come una medusa.

- Ma dove vai? - gridò il signore.

Il naso non rispose, e il suo disgraziato padrone si rassegnò a raggiungere il porto di Laveno e a passare in mezzo alla folla di curiosi per tornare a casa, dove si tappò, dando ordine alla domestica di non lasciar entrare nessuno, e passava il tempo a guardarsi nello specchio la faccia senza naso.

Qualche giorno dopo un pescatore di Ranco, tirando su la rete, ci trovò il naso fuggitivo, che aveva fatto naufragio in mezzo al lago perché il mantello era pieno di buchi, e pensò di portarlo al mercato di Laveno.

La serva di quel signore, che era andata al mercato per comprare il pesce, vide subito il naso, esposto in bella vista in mezzo alle tinche e ai lucci.

- Ma questo è il naso del mio padrone! - esclamò inorridita. - Datemelo subito che glielo porto.

- Di chi sia non so, - dichiarò il pescatore, - io l'ho pescato e lo vendo.

- A quanto?

- A peso d'oro, si sa. È un naso, non è mica un pesce persico.

La domestica corse a informare il suo padrone. - Dagli quello che domanda! Voglio il mio naso!

La domestica fece il conto che ci voleva un sacco di denaro, perché il naso era piuttosto grosso: ci volevano tremendamila lire, tredici tredicioni e mezzo. Per mettere insieme la somma dovette vendere anche i suoi orecchini, ma siccome era molto affezionata al suo padrone li sacrificò con un sospiro.

Comprò il naso, lo avvolse in un fazzoletto e lo portò a casa. Il naso si lasciò ricondurre buono buono, e non si ribellò nemmeno quando il suo padrone lo accolse tra le mani tremanti.

- Ma perché sei scappato? Che cosa ti avevo fatto?

Il naso lo guardò di traverso, arricciandosi tutto per il disgusto, e disse: - Senti, non metterti mai più le dita nel naso. 0 almeno tagliati le unghie.

La strada che non andava in nessun posto

All'uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.

Martino lo sapeva perché l'aveva chiesto un po' a tutti, e da tutti aveva avuto la stessa risposta:

- Quella strada lì? Non va in nessun posto. È inutile camminarci.

- E fin dove arriva?

- Non arriva da nessuna parte.

- Ma allora perché l'hanno fatta?

- Non l'ha fatta nessuno, è sempre stata lì.

- Ma nessuno è mai andato a vedere?

- Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c'è niente da vedere...

- Non potete saperlo, se non ci siete stati mai.

Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto.

Quando fu abbastanza grande da attraversare la strada senza dare la mano al nonno, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce, ma per fortuna non pioveva da un pezzo, così non c'erano pozzanghere. A destra e a sinistra si allungava una siepe, ma ben presto cominciarono i boschi. I rami degli alberi si intrecciavano al di sopra della strada e formavano una galleria oscura e fresca, nella quale penetrava solo qua e là qualche raggio di sole a far da fanale.

Cammina e cammina, la galleria non finiva mai, la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi, e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane.

«Dove c'è un cane c'è una casa, - rifletté Martino, - o per lo meno un uomo».

Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora.

- Vengo, vengo, - diceva Martino, incuriosito.

Finalmente il bosco cominciò a diradarsi, in alto riapparve il cielo e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro.

Attraverso le sbarre Martino vide un castello con tutte le porte e le finestre spalancate, e il fumo usciva da tutti i comignoli, e da un balcone una bellissima signora salutava con la mano e gridava allegramente:

- Avanti, avanti, Martino Testadura!

- Toh, - si rallegrò Martino, - io non sapevo che sarei arrivato, ma lei sì.

Spinse il cancello, attraversò il parco ed entrò nel salone del castello in tempo per fare l'inchino alla bella signora che scendeva dallo scalone. Era bella, e vestita anche meglio delle fate e delle principesse, e in più era proprio allegra e rideva:

- Allora non ci hai creduto. - A che cosa?

- Alla storia della strada che non andava in nessun posto.

- Era troppo stupida. E secondo me ci sono anche più posti che strade.