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Gardner Dozois

Figlio del mattino

La vecchia casa era stata colpita da qualcosa durante la guerra, e quasi completamente rasa al suolo. La facciata era stata schiacciata verso l’interno, come fracassata da un gigantesco pugno: legno scheggiato e ridotto in poltiglia, travi sporgenti a strane angolazioni, come dita spezzate, il primo piano crollato sui resti del pianterreno. Le macerie di un camino coprivano il tutto con un velo di calcina rossa. Sulla destra una breccia aperta attraversava le rovine, scoprendo tutti gli strati di pietra fusa, calcina e legno carbonizzato, ogni cosa arricciata su se stessa come le labbra di una ferita in cancrena. Le erbacce si erano propagate dalla strada su per il basso fianco della collina, dilagando sulla casa, avvolgendo le rovine con fiori di campo e viticci, smussando col verde le ferite della distruzione.

Williams portava qui John quasi ogni giorno. Una volta erano vissuti qui, in questa casa, molti anni prima, ed anche se i ricordi di John su quel periodo erano confusi, per lui il luogo sembrava associarsi a qualcosa di piacevole, nonostante fosse ormai un mucchio di rovine. Qui John era felice come non mai, e giocava contento con rametti e sassolini sui gradini di pietra distrutti, o correva schiamazzando tra l’intrico di erbacce che avevano trasformato il prato in una giungla, o per gioco camminava furtivo girando in circoli minacciosi intorno a Williams, mentre lui era occupato a riempire le borse di mirtilli, emerocallidi, patate indiane, denti-di-leone ed altre piante e radici commestibili.

Lo stesso Williams provava un vago piacere nel visitare le rovine, anche se ciò risvegliava ricordi che avrebbe preferito lasciare indisturbati. C’era nel luogo una piacevole malinconia, e qualcosa di stranamente riposante in quella mescolanza di vecchia pietra muschiosa e tenero verde nuovo, un ricordo dell’inevitabilità di ogni ciclo — vita nella morte, morte nella vita.

John balzò fuori dall’erba alta e corse ridendo verso il punto in cui si trovava Williams con le borse da raccolta. — Ho combattuto con i dinosauri! — disse John. — Quelli grandi e grossi! — Williams sorrise di traverso. — Ma che bravo. — Allungò la mano verso il basso e scompigliò i capelli di John. Rimasero immobili per un secondo, John che ansimava come un cane per il gran scorrazzare che aveva fatto. Williams indugiando con la mano sulla piccola testa arruffata. A quest’ora del mattino, John sembrava non stare mai fermo, un movimento così continuo che dava quasi l’impressione del riposo, come un corso d’acqua che sembra solido fino a che qualcosa non lo fa gorgogliare, ostacolandone il cammino.

In quelle prime ore della giornata, John si fermava raramente. Quando lo faceva, come adesso, sembrava congelarsi, il viso intento e stupito, come se stesse ascoltando suoni che nessun’altro poteva udire. In momenti simili, Williams lo studiava con dolorosa attenzione, cercando di vedere in lui se stesso, a volte riuscendoci a volte no, e chiedendosi che cosa lo rattristasse di più e perché.

Sospirando, Williams ritirò la mano. Il sole era ormai alto nel cielo, ed era meglio tornare al campo se volevano arrivare in tempo per i lavori più pesanti. Lentamente, Williams si chinò e prese le borse da raccolta, sbuffando un poco sotto il loro peso mentre se le sistemava sulle spalle… questa mattina erano riusciti a fare un buon rifornimento.

— Ora vieni, John — disse Williams. — È ora di andare — e si mise in cammino, zoppicando un po’ più del solito sotto il peso imprevisto. John, che lo affiancava sgambettando, sembrò notarlo. — Ti posso aiutare a portare le borse? — disse prontamente. — Posso? Sono grande abbastanza! — Williams gli sorrise e scosse la testa. — Non ancora, John, — disse. — Un po’ più tardi, forse.

Uscirono dall’ombra fresca della casa in rovina e si incamminarono verso il campo, seguendo l’autostrada deserta.

Ora il sole si era fatto cocente in un cielo senza nuvole, e da qualche parte le cicale cominciarono a frinire, con uno stridore aspro e metallico che assomigliava sorprendentemente a quello di una sega elettrica. Non c’erano altri suoni a parte il mormorio del vento tra l’erba alta e le spighe selvatiche, il fruscio e il sussurro degli alberi, e l’acuto pigolare della voce di John. L’erba si era aperta un varco attraverso il manto stradale… piccole dita verdi che avevano rotto e piegato la superficie della strada, sminuzzandola in blocchi asimmetrici. Ancora pochi anni, e là non ci sarebbe più stata una strada, solo un sentiero appena visibile nel sottobosco… alla fine neppure quello. Il tempo avrebbe cancellato ogni cosa, seppellendola sotto nuovi alberi, costruendo gradualmente nuove colline, creando un paesaggio nuovo per coprire quello di un tempo. Già l’erba e la veccia avevano rosicchiato un po’ degli angoli delle curve più strette, e il vento aveva trasportato il terriccio sulla strada. In qualche punto c’erano degli alberelli, verdi e tremolanti nel mezzo dell’autostrada, come a negare i segnali sbiaditi che indicavano distanze e città.

John corse avanti, trovò un sasso da tirare, tornò indietro, correndo intorno a Williams come se fosse legato ad un’invisibile catena. Camminavano in mezzo alla strada, John fingendo che la linea bianca sbiadita fosse una fune, agitando le braccia per restare in equilibrio, gridando a se stesso avvertimenti sulle creature degli abissi che lo avrebbero ingoiato se avesse messo un piede in fallo e fosse caduto.

Williams manteneva un’andatura regolare, senza affrettarsi: era il prototipo del vecchio ancora diritto e vigoroso, i capelli candidi scintillanti al sole, un coltello da caccia alla cintura, un vecchio Winchester 30.30 appeso di traverso alla schiena — anche se ormai dubitava che ce ne fosse ancora bisogno. Non erano le uniche persone rimaste al mondo, lo sapeva (per quanto a volte sembrasse proprio così) ma questa regione era stata evacuata anni fa, e da quando lui e John erano tornati da queste parti nel loro lungo viaggio dal sud, non avevano incontrato anima viva. Qui nessuno li avrebbe trovati.

Ora lungo la strada c’erano tracce di costruzioni, tutto quello che era rimasto di una cittadina di campagna: la sagoma carbonizzata delle travi di un tetto ricoperta di erbacce; fondamenta di pietra scoperchiate come fossero bastioni per nani; una tubatura d’acqua distrutta ricoperta di ragnatele; un distributore di gas fracassato abitato da uccelli e roditori. Presero una strada secondaria con fondo di ghiaia, oltrepassando i resti bruciati di un’altra stazione di servizio ed un casotto decrepito pieno di rifiuti trasportati dal vento. In alto un semaforo arrugginito dondolava appeso a un filo ricurvo. Qualcuno aveva legato una grossa insegna stregonesca nera e arancione su un lato del semaforo, e sull’altro lato, che puntava fuori dalla città verso il mondo ostile, c’era il simbolo del malocchio, dipinto in un bel rosso vivo su fondo bianco. Le cose erano diventate molto strane durante gli Ultimi Giorni.

Ora Williams aveva qualche problema a mantenere l’andatura di John, che procedeva con passo spedito, e decise che era ora di lasciargli portare le borse. John le sollevò senza sforzo, rivolgendo a Williams uno smagliante sorriso che gli scoprì una fila di denti bianchi e robusti, e si mise in cammino verso il campo salendo l’ultimo pendio, inerpicandosi sulla collina con le sue lunghe gambe ad un ritmo che Williams era incapace di sostenere. Williams imprecò benevolmente; John rise e si fermò ad aspettarlo in cima alla salita.

Il loro campo era sistemato ben lontano dalla strada, in cima ad un dirupo proprio sopra un piccolo fiume. Una volta là c’era stato un ristorante, ed un angolo dell’edificio era ancora in piedi, due pareti e parte del tetto che necessitavano soltanto di un telone impermeabile teso davanti al lato aperto per costituire un riparo ragionevolmente comodo. Avrebbero dovuto trovare qualcosa di meglio per l’inverno, naturalmente, ma tutto sommato era accettabile per il mese di luglio; inoltre era ben nascosto e vicino ad un corso d’acqua.