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Clifford D. Simak

Fuga dal futuro

1

Bentley Price, fotografo del Global News Service, dopo aver messo una bistecca sulla graticola, in attesa che cuocesse, s’era sistemato su una sdraio con una lattina di birra in mano, quando si aprì la porta sotto la vecchia quercia e cominciò a uscire gente.

Erano anni che Bentley Price non si meravigliava più di niente. L’esperienza, spesso amara, gli aveva insegnato a non far caso agli avvenimenti insoliti, ad aspettarseli. Scattava foto di cose fuori del comune, bizzarre, violente e poi voltava le spalle e se ne andava, il più delle volte di gran premura per via della concorrenza del QP e dell’UPI; un fotografo non poteva lasciarsi crescere l’erba sotto i piedi e, se anche i direttori dei giornali non erano individui di cui aver paura, era sempre meglio tenerseli buoni.

Questa volta, però, Bentley rimase sbalordito perché quello che stava succedendo non era né facilmente immaginabile né ricollegabile con le sue passate esperienze. Rimase immobile sulla sdraio con la lattina di birra stretta in mano e lo sguardo vitreo, a fissare la gente che usciva dalla porta, anche se adesso vedeva che non era una porta, ma un buco irregolare nero che tremolava ai bordi, ed era più largo di una porta normale in quanto la gente usciva a scaglioni, quattro o cinque alla volta.

Parevano individui normali, anche se vestiti in modo un pochino strano, come se stessero tornando a casa da una festa in maschera, sebbene non fossero mascherati. Se fossero stati tutti giovani, Price avrebbe pensato che venivano da un’università o da una comunità giovanile, vestiti nel modo bislacco in voga tra gli universitari, ma molti non erano giovani.

Uno dei primi che erano usciti sul prato era un uomo alto e sottile, dal portamento distinto, con una gran massa di capelli grigi e il collo rugoso come quello di un tacchino. Indossava una camicia grigia che gli lasciava scoperte le ginocchia nodose, e uno scialle rosso drappeggiato su una spalla e trattenuto in vita da una cintura che teneva a posto anche la camicia, e a Bentley parve uno scozzese in kilt ma senza la stoffa a quadri.

Accanto a lui era uscita una ragazza vestita di una tunica fluttuante che le arrivava ai piedi calzati da sandali. La tunica bianca era stretta da una cintura, e i capelli neri, legati dietro a coda di cavallo, le ricadevano lungo la schiena. Era molto graziosa, e aveva la pelle candida come la tunica che indossava.

I due si fermarono davanti a Bentley.

— Presumo che voi siate il proprietario — disse l’uomo.

Parlava in modo strano, mangiando le parole, ma era comprensibile.

— Volete dire, suppongo, se sono il padrone di questo posto — disse Bentley.

— Probabilmente è così — rispose l’altro. — Forse non parlo come si usa oggi, ma voi mi sentite.

— Certo che vi sento — affermò Bentley. — Ma cosa vuol dire “come si usa oggi”? Che si cambia modo di parlare tutti i giorni?

— Non intendo questo — spiegò l’uomo. — Dovete perdonare la nostra intrusione. Deve sembrare sconveniente. Ci comporteremo in modo da non danneggiare la vostra proprietà.

— Be’, amico, vi dirò che questo posto non è mio — disse Bentley. — Ci bado intanto che il padrone è via. Volete chiedere a quella gente di non calpestare le aiuole? La moglie di Joe ci resterebbe malissimo trovando tutti i fiori schiacciati, al suo ritorno. Ci tiene molto. Intanto che parlavano, la gente continuava a uscire dalla porta e adesso avevano invaso tutto il giardino e cominciavano a sconfinare in quelli vicini, e qualcuno usciva di casa a vedere cosa stava succedendo.

— Non temete per i fiori — disse la ragazza con un caldo sorriso. — È tutta brava gente beneducata.

— Fanno molto conto sulla vostra tolleranza — disse l’uomo. — Sono profughi.

Bentley li osservò. Non avevano per niente l’aria di profughi. Durante la sua carriera gli era capitato di fotografare molti profughi, in diverse parti del mondo. Be’, i profughi di solito erano gente patita e male in arnese, carichi di fagotti e valigie, questi invece erano puliti e in ordine e portavano con sé pochissimo bagaglio, una valigetta o una borsa, come quella che stringeva sotto il braccio l’uomo che gli stava parlando.

— A me non sembrano profughi — disse. — Da dov’è che fuggono?

— Dal futuro — disse l’uomo. — Vi supplichiamo di voler essere indulgenti con noi. Vi assicuro che per noi è questione di vita o di morte.

Questo diede la sveglia a Bentley, che depose la lattina di birra per terra e si alzò. — Sentitemi bene, caro signore — disse. — Se si tratta di un espediente pubblicitario, non scatterò neanche una foto.

— Un espediente pubblicitario? — ripeté l’uomo, chiaramente stupito. — Scusatemi, signore, ma mi sfugge il senso di quello che dite.

Bentley si voltò verso la porta. Continuava a uscir gente, quattro o cinque alla volta e pareva che non finissero mai. La porta era sempre là dove il fotografo l’aveva vista fin dal primo momento, una chiazza scura dai bordi indistinti che nascondeva una parte del prato, ma dietro si vedevano gli alberi e i cespugli e il campo da gioco nel cortile della casa vicina.

Se si trattava di una trovata pubblicitaria, pensò Bentley, bisognava ammettere che era di prim’ordine. Un mucchio di specialisti doveva essersi spremuto il cervello per riuscire a escogitarla. Ma poi, come diavolo avevano fatto a fabbricare quel buco e da dove veniva tutta quella gente?

— Veniamo da un futuro distante cinquecento anni — disse l’uomo. — Fuggiamo dalla estinzione dell’umanità. Chiediamo a voi aiuto e comprensione.

— Se ci casco, sono fritto. Non mi starete mica prendendo in giro? — domandò Bentley fissandolo.

— Naturalmente ci aspettavamo di trovare dell’incredulità — disse l’uomo. — Mi rendo conto che non abbiamo modo di dimostrare la nostra origine. Vi chiediamo, per favore, di accettarci per quel che diciamo di essere.

— Sapete una cosa? — disse Bentley. — Ci sto. Vi credo sulla parola. Prenderò qualche foto, ma se scopro che si trattava di pubblicità…

— Presumo che diciate di voler scattare alcune fotografie.

— Esatto. Faccio il fotografo di professione.

— Non siamo venuti qui per farci fotografare. Se però volete, siete libero di farlo. A noi non importa.

— Dunque non vi importa se vi fotografo o no — disse Bentley scaldandosi. — Capita spesso a molti. Si mettono in qualche pasticcio e poi strillano se li fotografano.

— Ma noi non abbiamo obiezioni, vi ho detto. Fate tutte le fotografie che volete.

— Non vi secca? — domandò Bentley, confuso.

— Ma no!

Bentley si voltò per entrare in casa. Sul tavolo di cucina c’erano tre macchine fotografiche, che aveva lasciato dopo aver finito di lavorare, per andarsi ad arrostire la bistecca. Ne afferrò una e stava per uscire di nuovo, quando gli venne fatto di pensare a Molly. Forse era meglio metterla al corrente, pensò. Quel tizio aveva detto che tutta quella gente veniva dal futuro, e se era vero, a Molly avrebbe fatto piacere trovarsi sulla scena fin dal principio. Non che lui credesse una parola, logico, ma la cosa, qualunque fosse, si presentava interessante.

Sollevò la cornetta del telefono in cucina e formò il numero. Stava perdendo tempo, mentre avrebbe dovuto scattare le foto. Forse Molly non era in casa. Era domenica, faceva bel tempo e non c’era motivo perché lei fosse rimasta a casa.

Molly rispose.

— Molly, qui Bentley. Sai dove sto?

— Sì, sull’altra sponda, in Virginia. Ti godi a sbafo la casa di Joe intanto che lui è via.

— Mica vero. Faccio da guardiano e curo i fiori di Edna…

— Ah! — commentò Molly.

— Ti ho chiamato per dirti se vuoi venire qui.