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— Potremmo dire che, secondo le informazioni ricevute, è probabile, sottolineare il probabile, che questa gente venga dal futuro — disse Williams. — Ma dobbiamo controllare più a fondo. Per il momento, non possiamo fare dichiarazioni sicure.

— Vorranno sapere perché tutta quella gente torna nel passato — osservò Sandburg. — Steve dovrà pur rispondere qualcosa. Non possiamo mandarlo da loro a mani vuote. E poi, fra poco verranno a sapere che stiamo piazzando dei cannoni allo sbocco dei tunnel.

— Se lo si venisse a risapere si scatenerebbe il panico — asserì Williams. — Oppure ci rimprovererebbero credendo che piazziamo i cannoni per impedire l’afflusso dei profughi.

— Potremmo dire che la popolazione del futuro è alle prese con una catastrofe di proporzioni immani e fugge per salvare la vita — propose il Presidente. — Quanto ai cannoni, potremmo dire che si tratta di una normale misura precauzionale.

— Ma solo se fanno domande in merito — precisò Sandburg.

— D’accordo — disse Wilson — ma non è tutto. Faranno altre domande. Ci siamo consultati con gli altri governi? Che cosa ne pensa l’ONU? Si prevedono dichiarazioni ufficiali?

— Potresti dire che ci siamo messi in contatto con gli altri governi e che i cannoni li piazziamo dietro loro suggerimento — propose Williams.

— Steve, cerca di fare del tuo meglio per tenerli a bada — concluse il Presidente. — Di’ che fra qualche ora terrai un’altra conferenza stampa.

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Di Molly Kimball

WASHINGTON (Global News). La gente che arriva dai tunnel è profuga dal futuro.

Questo ci è stato confermato oggi da Maynard Gale, uno dei profughi, il quale però si è rifiutato di dire perché scappano da un futuro distante cinquecento anni rispetto alla nostra epoca. Ha detto che rivelerà i motivi del loro esodo solo alle autorità governative. Ha insistito fermamente su questo punto. Ha spiegato di essere il portavoce della comunità di Washington esistente nella sua epoca e di avere l’incarico di conferire al suo arrivo col governo federale.

Ci ha però fatto un quadro sorprendente della società in cui vive — o più precisamente viveva — un mondo in cui non esistono più nazioni e nel quale è scomparso il concetto di guerra.

È una società semplice, ha raccontato, costretta a essere tale dai problemi ecologici presenti anche oggi. Non è più una società industriale. La produzione ammonta all’incirca all’uno per cento di quella attuale. I loro prodotti sono fatti per durare. Il concetto del consumismo è stato abbandonato poco dopo la nostra epoca — a quanto ha detto il signor Gale — perché le risorse naturali erano in via di esaurimento, come ci predicano da anni economisti ed ecologi.

Poiché carbone e petrolio sono quasi scomparsi nel mondo futuro, l’unica energia disponibile secondo Gale è quella atomica. Solo in tal modo il suo mondo è riuscito a salvarsi.

Il mondo fra 500 anni sarà dominato dai calcolatori elettronici, e gran parte della popolazione vivrà in “città verticali”. Una mezza dozzina di torri, alcune delle quali alte oltre un chilometro, costituiranno le città dell’avvenire. Le città non si estenderanno più in ampiezza, e in tal modo vaste zone potranno essere coltivate. Le città saranno costruite in massima parte servendosi dei rottami metallici che noi del nostro tempo seppelliamo o gettiamo in mare, e saranno regolate dai calcolatori elettronici, in modo da essere quasi totalmente automatizzate.

A quanto ha detto Gale, la distribuzione delle ricchezze nel futuro sarà molto diversa da oggi. Non esisteranno più i miliardari né i miserabili. Evidentemente il sistema di vita sarà diverso, e diverso sarà il metro dei valori. La vita sarà più semplice e meno dura, meno competitiva; ci sono indizi secondo cui fra 500 anni…

15

In Lafayette Park stava adunandosi la folla, silenziosa e ordinata come sempre avveniva da anni, per fermarsi a guardare la Casa Bianca senza chiedere niente, senza aspettarsi niente, limitandosi a radunarsi in una muta scena di partecipazione durante le ore critiche della nazione. Al di sopra della folla, Andy Jackson stava sempre in groppa al suo destriero, e tanto cavallo che cavaliere, su cui amavano appollaiarsi i piccioni, erano coperti dalla patina degli anni.

Nessuno sapeva in cosa consistesse l’attuale crisi, e nemmeno se si trattava di una crisi. Nessuno aveva un’idea precisa di quello che era successo o poteva succedere, sebbene qualcuno si vantasse di essere al corrente di notizie più precise, e spesso alterate, e fosse più che propenso a rivelarle ai suoi vicini e a esprimere le sue opinioni in merito.

Alla Casa Bianca era un continuo susseguirsi di telefonate da parte di membri del Congresso, di rappresentanti dei partiti, tutti disposti a offrire il proprio appoggio e i propri consigli, di finanzieri e industriali che la situazione cominciava a innervosire, di esaltati che offrivano soluzioni immediate.

Una troupe televisiva arrivò con un furgone e cominciò a riprendere immagini della folla e della Casa Bianca immersa nel vivido sole dell’estate, mentre un cronista improvvisava un commento.

Gruppi di turisti esausti si trascinavano su e giù per il viale, stupiti e increduli per essersi trovati proprio lì in un’ora storica, e gli scoiattoli della Casa Bianca sgambettarono fino alla cancellata e di qui saltarono sul marciapiede mettendosi seduti con le zampine anteriori incrociate sul petto, in attesa di qualche buon bocconcino.

16

Alice Gale guardava dalla finestra la folla raccolta nel parco al di là di Pennsylvania Avenue. Era al settimo cielo, quasi quasi non si capacitava di trovarsi davvero lì, nella Washington del ventesimo secolo, in quella casa dov’era stata fatta la storia, dove avevano vissuto uomini leggendari, e nella stanza dove avevano dormito teste coronate.

Teste coronate, pensò, che brutta espressione antiquata, medievale addirittura. Pure non suonava male, aveva in sé una certa eleganza che il suo mondo non aveva mai conosciuto.

Alice aveva avuto modo di dare un’occhiata al monumento a Washington, e sia lei sia suo padre erano stati accompagnati a fare un giro entro la proprietà della Casa Bianca, dove, proprio dietro la casa, un Lincoln di marmo sedeva nella sua poltrona di marmo a braccia conserte, e il volto dai lineamenti marcati, incorniciato dai favoriti, aveva quell’espressione nobile, fatta di dolore e di compassione che aveva costretto a un reverente silenzio tutti coloro che avevano salito la gradinata per andare a guardarlo.

Suo padre era stato alloggiato nella stanza di fronte, che era la stanza di Lincoln, col massiccio letto vittoriano dal baldacchino di velluto, anche se — Alice lo sapeva — Lincoln non ci aveva mai dormito.

Era come se la storia rivivesse, pensava Alice. Ed erano momenti preziosi, di cui far tesoro, da ricordare quando sarebbe stata nel Miocene. Come sarebbe stato il Miocene?, si domandò, rabbrividendo. Se mai ci fosse arrivata, se la gente di questo tempo li avesse aiutati ad andarci… Ma qualunque cosa potesse succedere, lei avrebbe sempre potuto dire: “Una volta, ho dormito nella Camera della Regina”.

Si allontanò dalla finestra per fissare ancora una volta con rinnovata meraviglia l’enorme letto matrimoniale con le tendine e la coperta bianca e rosa, la libreria-scrivania di mogano, il morbido tappeto bianco.

Era egoista da parte sua goderne, se ne rendeva conto, quando tanti altri del suo mondo in quello stesso momento erano smarriti, privi di un tetto, preoccupati per l’avvenire e per le accoglienze che avrebbero ricevuto. Ma, pur cercando di rimproverarsi per la sua mancanza di partecipazione ai guai altrui, non ci riusciva.