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«Arreca un sonno tranquillo,» replicò.

«E dormono tutti sottoterra?»

«Sottoterra, sì. Al fianco di tuo padre».

«Lo berrò? Tu lo berrai?»

«Tu lo berrai, si, ma tra molti anni, credo. Ma io lo berrò tra pochi minuti».

«Allora tu dormirai sottoterra accanto a mio padre?»

Il vecchio annuì.

«Fino a domani mattina?»

«Per sempre», rispose.

Riflettei.

«Ah. Sarà come morire, allora».

«Sarà come morire, figliolo».

«E anche tutti gli altri che sono andati sottoterra, stanno per morire?»

«Si», disse Ur-kununna.

Riflettei ancora.

«Ma è una cosa terribile morire! E tutti bevono senza dire una parola, e scendono nelle tenebre con passo fermo e sicuro!»

«È terribile andare nella Casa della Polvere e delle Tenebre», disse, «e vivere correndo tra le ombre nutrendosi di argilla secca. Ma noi che moriamo con tuo padre, andiamo alla Casa degli Dei, dove lo serviremo per sempre».

E il vecchio continuò a spiegarmi che privilegio fosse morire in compagnia di un Re. Vidi la luce bianca della saggezza brillare di nuovo nei suoi occhi, insieme ad un espressione di gioia sublime. Ma poi gli chiesi se era sicuro che sarebbe andato alla Casa degli Dei con Lugalbanda, e non invece alla Casa della Polvere e delle Tenebre, e la luce dei suoi occhi si spense, il vecchio sorrise tristemente e rispose che nulla è sicuro, soprattutto quello. Mi toccò la mano, si girò e suonò una breve melodia sull’arpa. Poi si fece avanti, bevve un sorso del vino e scese nella fossa. Mentre camminava, cantava.

Anche altri scesero nella fossa, sessanta o settanta persone in tutto. Gli ultimi due ad andare furono Alitum che indossava il mantello e i gioielli di mia madre, e Enkihegal che indossava i miei indumenti. Allora capii che sarebbero morti al nostro posto. Mi spaventai nel pensare che, se l’usanza fosse stata solo un po’ diversa, avrei potuto essere io a bere il vino e a scendere nella fossa. Ma la paura non fu grande allora, perché all’epoca non avevo ancora capito il vero significato della morte: la ritenevo solo una sorta di sonno.

Poi i tamburi tacquero e gli operai cominciarono a spalare la terra lungo li pendio e nella fossa. La terra coprì tutto: i carri, gli asini, il tesoro, gli stallieri, le cameriere, i servi del Palazzo, il corpo di mio padre e l’Arpista Ur-kununna. Dopodiché, gli artigiani lavorarono a chiudere il pendio con mattoni crudi di fango, in modo tale che, dopo qualche ora, non sarebbe rimasta traccia di tutto quello che era sottoterra.

Noi che eravamo rimasti di tutta la processione originaria, ritornammo al Tempio di Inanna.

Eravamo un gruppo molto più piccolo adesso: mia madre, io, i Grandi Sacerdoti della città e altre persone importanti, ma nessuno dei Servi del Palazzo né dei guerrieri, perché erano tutti nella fossa con mio padre.

Ci raccogliemmo davanti all’altare e io avvertii di nuovo la presenza della Dea, vicina e soffocante. Un caos di pensieri complessi incalzò il mio animo. Non mi ero mai sentito così solo, così abbandonato. Il mondo aveva solo misteri per me. Mi sembrava di trovarmi in un sogno ad occhi aperti.

Mi guardai intorno, alla ricerca di Ur-kununna. Ma, naturalmente, il vecchio non c’era, e le domande che volevo fargli, non avrebbero avuto risposta. Il che mi fece comprendere uno dei significati della morte: i nostri discorsi non possono raggiungere coloro che sono morti, e i morti non rispondono, quando ci rivolgiamo loro. Mi sentii come se mi fosse stato offerto uno spiedino di carne alla griglia, e poi la carne fosse stata portata via mentre stavo per mangiarla, lasciandomi a mordere solo l’aria.

Si cantò ancora, i tamburi ripresero a suonare, e io pensai mille cose diverse sulla morte. Pensai che mio padre se n’era andato per sempre, ma che non era poi così brutto, visto che era diventato un Dio e di conseguenza mi aveva fatto diventare in parte un Dio. E, ad ogni modo, non aveva mai avuto molto tempo da dedicarmi a causa delle sue assenze, sebbene avesse promesso di insegnarmi un giorno che cosa significava essere uomini. L’avrei imparato da qualcun altro. Ma anche Ur-kununna se n’era andato. Non l’avrei mai più sentito cantare. E Enkihegal, il mio compagno di giochi, e suo padre Girnishag il giardiniere, e tutti gli altri che avevano fatto parte della mia vita quotidiana, se n’erano andati, andati, andati. Mi avevano lasciato a mordere l’aria.

E io? Anch’io sarei morto?

Non avrei permesso che mi accadesse, giurai. Non a me. Sono in parte un Dio. E, sebbene talvolta gli Dei muoiano, come Inanna una volta morì quando scese negli Inferi, essi non muoiono per sempre. Nemmeno io sarei morto per sempre. Giurai che la morte non mi avrebbe mai avuto.

Ci sono troppe cose da vedere nel mondo, mi disse, e c’è una moltitudine di azioni da compiere. Sfiderò la morte: tale fu la mia decisione. Provo solo disprezzo per la morte, e non le cederò. Morte, non ti sono da meno! Morte, ti vincerò!

E poi pensai che se, in qualche modo, sarei morto, ebbene, ero in parte un Dio ed ero destinato ad essere un Re, e alla mia morte sarei stato trasportato nell’alto dei cieli come Lugalbanda. Non sarei disceso nella infima Casa della Polvere e delle Tenebre, come i comuni mortali.

E poi pensai: no, non c’è nessuna certezza. Perfino Inanna scese in quel luogo, sebbene ne fu poi portata via. Ma se io ci fossi andato, sarei stato portato via? E provai una grande paura. Non importa chi si sia, pensai, non importa quanti servi e guerrieri vengano messi a dormire nella fossa funebre per servire il morto nell’altra vita: si può essere lo stesso mandato in quel luogo disgustoso e oscuro.

Lo sdegno che avevo provato poco prima per la morte, cedette il posto alla paura, una paura soverchiante che spazzò la mia anima simile ad una folata violenta di vento gelido. Una strana sensazione entrò nella mia mente, il genere di sensazione che assale quando si sogna, e in quel momento non capii se stessi sognando o se fossi sveglio. Avvertivo una pressione nella testa, fino a sentirmela scoppiare. Era una sensazione che non avevo mai provato prima, sebbene l’avrei sentita molte altre volte in seguito e con maggiore forza di quel primo lieve tocco. Un Dio stava tentando di entrare dentro di me. Ne ero certo, benché non sapessi di quale Dio si trattasse.

Ma anche allora capii che era un Dio e non un Demone, e che aveva un messaggio per me. Il messaggio era: Sarai un Re, un Grande Re, poi morirai, e non potrai evitare questa sorte, per quanto tu possa tentare.

Non accettai né il Dio né il suo messaggio. Non c’era spazio nella mia anima per ammettere una cosa simile. Ero solo un bambino.

Nel mio caos interiore vidi la figura della morte davanti a me, con gli artigli tesi e le ah aperte, e gridai in tono di sfida: «Ti sfuggirò!» Per un attimo sentii un grande coraggio in me, che lasciò il posto un istante dopo alla paura. Adesso dormono tutti nella fossa accanto a Lugalbanda. E dove dormirò io?

Mi assalirono le vertigini. Il Dio batteva alle porte della mia mente, chiedendo di entrare. Ma io non riuscivo né a cedere né a resistere, perché ero paralizzato dalla paura della morte, una cosa che non mi aveva mai colpito prima di allora. Barcollai e tesi la mano verso Ur-kununna, ma lui non c’era: caddi sul pavimento del Tempio e vi giacqui per non so quanto tempo.

Mani mi sollevarono. Braccia mi avvolsero.

«Il dolore l’ha sopraffatto», disse qualcuno.

No, pensai. Non sento nessun dolore. Il viaggio di Lugalbanda è un compito che riguarda Lugalbanda. È il mio compito che mi preoccupa, non il suo, perché il suo compito è morire e il mio è vivere. Perciò non fu il dolore a gettarmi a terra, ma il Dio che tentava di entrare nella mia anima mentre ero paralizzato dalla paura. Ma a loro non lo dissi.