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Stoner era nel parcheggio sul retro; stava facendo gli esercizi di karate. Diritto, rigido, un’espressione concentrata sul viso scuro, le labbra serrate, teneva le mani strette a pugno appena sotto la cintura nera di cui era tanto orgoglioso. Per un attimo non fece nulla; restò con lo sguardo puntato nel vuoto, un uomo alto, forte, dai capelli neri e lucidi, gli occhi grigi, il ventre piatto e lunghe gambe snelle, da atleta.

Poi diventò una furia scatenata, fendendo l’aria con braccia e gambe in una gestualità complicata e micidiale. Era quasi come una danza, ma violenta, potente, veloce.

Dalla sua bocca non uscì un solo suono, mentre divorava in tutta la sua lunghezza il parcheggio coperto. Poi si fermò, all’improvviso come aveva cominciato, le braccia levate e le ginocchia piegate in una scattante posizione di difesa. Si rialzò lentamente, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.

Per un momento, Jo ebbe paura che lui alzasse gli occhi e la vedesse alla finestra dell’ufficio, intenta a guardarlo. Ma lui girò la schiena all’edificio, si rimise in posizione d’attacco e si lanciò in un’altra serie di violente mosse di karate, tirando calci, fendendo l’aria con mani e braccia, fino all’estremità opposta del parcheggio.

Jo si allontanò dalla finestra. Se si fosse spicciata, sarebbe arrivata in tempo per l’ultima lezione del pomeriggio. Ma doveva parlargli, dirgli dello strano interesse del professor McDermott per il suo viaggio a Washington. Era più importante quello della lezione.

Pensò di lasciargli un messaggio sopra il mucchio di fotografie, ma decise di no. L’avrebbe aspettato, avrebbe aspettato che facesse la doccia e si cambiasse e tornasse in ufficio. Avrebbe perso l’ultima lezione, ma non importava. Vederlo era più importante.

Non che a lui interessasse Jo. Era solo una fra tanti studenti anonimi che lavoravano per il famoso dottor Stoner, l’ex astronauta che adesso lavorava all’osservatorio, solo, isolato, affascinante e misterioso.

“Ma finirò con l’interessargli” si promise Jo. “Si accorgerà di me. Lo costringerò ad accorgersi di me.”

Keith Stoner abbassò le spalle, lasciò ricadere stancamente le braccia lungo i fianchi. Era coperto da una sottile patina di sudore che gli scendeva dalle sopracciglia e gli entrava negli occhi, bruciante. Però sapeva che in poco tempo il vento freddo del pomeriggio l’avrebbe congelato, se non si affrettava a rientrare.

Non aveva funzionato. “Non c’è più nulla che funzioni” rifletté amaramente. Il tae kwon do è una disciplina più mentale che fisica. Avrebbe dovuto aiutarlo a ottenere la calma interiore e l’autocontrollo. Però Stoner avvertiva solo una furia cocente, una rabbia incandescente che gli divorava le viscere.

“È tutto finito” si disse per la millesima volta. “È tutto morto.”

Si ricompose, si mise in posizione di “pronti”, udì il vecchio istruttore coreano che gli sibilava all’orecchio: “Concentrati, Concentrati! Hai velocità. Hai forza. Ma devi imparare a servirti della concentrazione. Concentrati!”.

Cercò di mettere a tacere la mente, ma nel buio dietro gli occhi chiusi vide il telescopio orbitale, lucido e scintillante nella luce fortissima dello spazio, una fantastica, raffinatissima macchina di metallo e di specchi che fluttuava sullo sfondo delle tenebre dell’infinito. E tutt’attorno, come fedeli al servizio di un gigantesco idolo argenteo, uomini minuscoli in tute spaziali.

Stoner era stato uno di quegli uomini.

Ex astronauta. Ex astrofisico. Con un ex matrimonio e una ex famiglia. Ex membro del gruppo che aveva progettato e costruito Big Eye, il telescopio orbitale. Finito a marcire in un osservatorio radio insignificante, solo, con uno stipendio che era più una carità che un salario vero e proprio.

“Ma gliela farò vedere. La farò vedere a tutti!” Sapeva di avere scoperto qualcosa di grosso. Di talmente grosso che si sarebbe spaventato lui stesso, non fosse stato così deciso a stupire il mondo intero.

Comunque, rimase stupito anche lui quando la grande antenna cominciò a muoversi. Scricchiolii e cigolii gli fecero alzare gli occhi sul riflettore parabolico da diciotto metri del radiotelescopio. Stava ruotando lentamente, a fatica, come un vecchio artritico che tentasse di girare la testa, in direzione delle colline lontane, coperte d’alberi.

“Avrebbero dovuto demolire da un pezzo questa anticaglia” pensò Stoner osservando l’antenna che si muoveva a fatica. “Come hanno demolito me.”

L’antenna era una grande ragnatela composta da un’intelaiatura d’acciaio e da un reticolato metallico, un catino leggermente incurvato, il piatto per la tavola d’un gigante.

Puntata verso il cielo, continuava a ricevere le onde radio emesse da sciami stellari inconcepibilmente lontani.

Stoner fissò, accigliato, il riflettore parabolico, In qualche modo, lo turbava pensare che il radiotelescopio funzionasse sia di giorno sia di notte. Con la pioggia o con la neve. L’unica cosa capace di bloccare il radiotelescopio era un accumulo di neve sul grande riflettore concavo. I telescopi più grossi e più moderni erano protetti da cupole geodetiche che tenevano lontana la neve. Quel pezzo da museo non valeva la spesa di una cupola protettiva. Gli addetti alla manutenzione andavano a rimuovere la neve con le scope.

Ma quel vecchio apparecchio aveva captato qualcosa che nessuna delle attrezzature più moderne aveva scoperto, come sapeva Stoner. “Quando lo scopriranno anche gli altri” pensò “saranno pronti a tagliarsi il testicolo sinistro per entrare in gioco.”

Fissò il cielo d’ottobre, chiaro, sgombro di nubi. L’autunno era mite, nel Massachusetts. Ancora nessun uragano. Gli alberi avevano colori splendidi: rossi accesi, arancioni vivaci, marrone e gialli dorati, con macchie di pini verde scuro e abeti rossi disseminati sulle colline dai dolci declivi.

Ma sopra la cima degli alberi, invisibile all’occhio umano nel cielo terso del pomeriggio, stava sorgendo il pianeta Giove.

E il radiotelescopio era puntato su quel pianeta.

Stoner rabbrividì, rientrò nell’osservatorio. Non notò la Plymouth nera, anonima, ferma nel parcheggio riservato ai visitatori sul davanti dell’edificio. E nemmeno i due uomini dal viso deciso, vestiti di grigio, che sedevano nella macchina.

Fatta la doccia, indossati i soliti abiti (camiciola aperta al collo, calzoni sportivi e maglione), Stoner diede un’occhiata nella sala centrale dell’osservatorio, leggermente disgustato.

Un osservatorio astronomico dovrebbe essere una sorta di cattedrale a cupola con un grande telescopio ottico puntato verso il paradiso. Le persone dovrebbero parlare a sussurri riverenti. Dovrebbero esserci echi e passi timorosi che risuonassero sul solido pavimento di cemento.

L’osservatorio sembrava il reparto vendite di un negozio per appassionati d’elettronica, ed era rumoroso come la redazione di un vecchio giornale di provincia. Al centro della stanza, le scrivanie erano unite l’una all’altra. Fogli di carta da per tutto, persino a terra. Consolle elettroniche alte come frigoriferi erano allineate lungo tutte le pareti, dove ronzavano piano. Uomini e donne, tutti più giovani di Stoner, urlavano in continuazione. La sala vibrava a sessanta cicli al secondo, e nell’aria c’era l’odore debole di lega per saldature e olio da motori.

Erano quasi tutti studenti. Laureati, alcuni già col diploma di specializzazione. Ma l’età media del personale regolare era di poco superiore ai trent’anni. Il vecchio McDermott era il direttore nominale dell’osservatorio, preside della facoltà eccetera. In pratica, a guidare il lavoro quotidiano era in effetti Jeff Thompson, che stava salutando Stoner dal lato opposto dell’isola di scrivanie perse nel mare di carte.

«Vuoi sentire?» urlò Thompson.

Stoner annuì, cominciò ad aggirare le scrivanie.

«Dottor Stoner» gli disse una studentessa, cercando di afferrargli il braccio. «Posso parlarle un minuto? Professore…»