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«Mi stai facendo il solletico!»

Markov scoprì che era la sua barba a essere sotto accusa e, spostando il mento in cerchio, fece correre l’estremità delle basette attorno al capezzolo del seno destro di lei.

La ragazza rise e gli passò le mani sul collo.

«Ce la fai ancora?» gli chiese.

«In inglese» le rispose Markov, con un sussurro dolce. «Il nostro patto era che avremmo fatto l’amore solo in inglese. È il modo migliore per imparare una lingua.»

Lei strinse le labbra, si concentrò con una smorfia. “Ha un viso molto comune” pensò Markov. “Addirittura insignificante.”

La ragazza, sempre accigliata, disse lentamente in inglese: «Ce la fai a fregarmi un’altra volta?» L’accento era atroce.

Soffocando una risata, Markov disse: «Fottere… Non fregare.»

Lei annuì. «Ce la fai a fottermi un’altra volta?»

«Questo verbo è considerato di cattivo gusto da inglesi e americani, ma non dagli australiani.»

«Fregare?»

«No. Fottere. In genere lo sostituiscono con un eufemismo.»

«Un eufemismo?»

Markov alzò gli occhi al cielo. “Non supererà mai gli esami, anche se va a letto con tutti.” E, mentre le spiegava in russo il significato del termine, aggiunse mentalmente: “A meno che non riesca a fottere il computer”.

«Adesso capisco» disse Nadia, in inglese.

«Bene» disse lui.

«Allora, ce la fai?»

«Cosa dovrei fare?»

«Oh, dai, insomma…»

«Ah!» Quando arrivò a capire che la mente di lei non si era distolta dai suoi obiettivi carnali, Markov ribatté: «Rifare l’amore con te? Volentieri! Con tutta la mia passione più incandescente. Ma non adesso. È ora che tu torni in collegio.»

In russo, lei piagnucolò: «È proprio necessario? Qui è così intimo, e fa così caldo!» Le dita della ragazza tracciarono linee sulle spalle e sulla schiena di lui.

«Tra un po’ non sarà tanto intimo. Mia moglie sta per tornare.»

«Oh, lei!»

Markov sedette sul letto. Era nudo, e la stanza gli parve fredda.

«È mia moglie, cara bambina, e questo appartamento è più suo che mio. Credi che a un semplice professore universitario di lingue darebbero un appartamento così elegante, in una zona tanto bella della città?»

La ragazza si alzò e, nuda, andò in bagno senza aggiungere una parola. Osservandola, Markov notò che aveva cosce e sedere piuttosto abbondanti. Non se n’era accorto, prima di andare a letto.

Con un sospiro, scese dal letto e tolse le lenzuola. Ne aveva sempre pronte due paia diverse: uno per il matrimonio, e uno per le avventure. Sua moglie aveva un olfatto finissimo, e per certe cose era un vero segugio.

Nadia tornò in camera, rimettendosi i pantaloni imbottiti e infilandosi il camiciotto nella cintura.

«Cosa fa, tua moglie, per avere un appartamento così fantastico? Un bagno personale solo per voi due!» Era quasi un rimprovero.

«Lavora al Cremlino» disse Markov. «È segretaria di un commissario.»

La ragazza spalancò gli occhi. «Ah, capisco. Per forza la trattano tanto bene.»

Markov annuì, afferrò la vestaglia. «Sì. Nella nostra società progressista, i commissari lavorano così tanto e danno una tale parte della loro vita per il bene del popolo che persino le loro segretarie vivono come… come vivremo tutti, quando il vero comunismo avrà trionfato nel mondo intero.»

Lei annuì, senza notare l’ironia di quelle parole, Markov l’accompagnò nel piccolo soggiorno, fino alla porta sul corridoio.

«È un modo meraviglioso per imparare l’inglese» disse Nadia «ma temo che mi occorreranno molte lezioni.»

Markov le batté sulla spalla. «Vedremo. Nel frattempo, sarebbe una buona idea se tu frequentassi le lezioni e passassi più tempo coi nastri registrati del laboratorio di lingue.»

«Oh, certo» disse lei, sincera. «Grazie, professore.»

Lui si chinò a baciarle le labbra, poi la spinse in fretta oltre la porta, nel corridoio male illuminato.

Chiusa la porta, Markov vi si appoggiò un attimo, “Un caso disperato” si disse. “Hai quarantacinque anni e ti dedichi ancora a questi giochi infantili.”

Poi, però, un sorriso nacque sul suo viso barbuto. “E perché no?” si disse. “È divertente.”

Era alto quasi un metro e ottantacinque, di corporatura magra, con gambe lunghe e braccia che gli penzolavano lungo i fianchi quando camminava. I capelli rossicci cominciavano a scolorirsi, e la barba ruvida era quasi completamente grigia. Però il suo viso non conosceva rughe, era ancora quello di un ragazzo. Gli occhi azzurro chiaro lanciavano faville. E le sue labbra piene sorridevano spesso.

Quando teneva conferenze all’università, la sua voce era forte e chiara; non gli serviva il microfono per farsi udire dalle ultime file. Quando cantava (di solito a festicciole dove la vodka scorreva abbondante), il suo tono baritonale aveva un timbro chiarissimo, senza sbavature.

Si staccò di colpo dalla porta, corse in camera da letto e finì di cambiare le lenzuola. Infilò quelle sporche nella valigetta speciale che teneva dietro lo scrittoio. Una volta alla settimana, le lavava nella lavatrice del seminterrato della casa dello studente, all’università: un ottimo posto per conoscere ragazze che non seguivano il suo corso.

Alla fine si lavò, e si sistemò in salotto nella sua poltrona preferita, davanti alla stufa elettrica. Proprio mentre stava prendendo un tomo voluminoso e infilandosi gli occhiali sentì le chiave di Maria girare nella serratura.

Maria Kirtchatovska Markova era un po’ più anziana del marito. Era originaria di una famiglia di contadini, cosa di cui andava molto fiera. E aveva l’aspetto della contadina: bassa, tozza, occhietti di un castano insignificante, capelli color topo di campagna, corti e schiacciati sulla testa. Non era una bellezza, e non lo era mai stata. E non era nemmeno la segretaria di un commissario.

Quando Markov l’aveva conosciuta, un quarto di secolo prima, lui era studente di linguistica all’università, e lei una guardia dell’Armata Rossa appena congedata. Lei era ambiziosa, lui era un ingegno brillante.

La loro unione si era basata sul reciproco vantaggio. Markov aveva pensato che il matrimonio avrebbe fatto sbocciare l’amore, ed era rimasto stupefatto nello scoprire che non era così. Lei aveva accettato subito di lasciare che lui si dedicasse ai “suoi interessi”, espressione eufemistica che Markov usava per le sue avventure. Maria voleva solo l’intelligenza del marito, da sfruttare per fare carriera in seno al governo.

L’accordo funzionò bene. Maria entrò a far parte del KGB e arrivò, con gli anni, al grado di maggiore. Al momento, lavorava con un gruppo ristretto che si occupava di criptoanalisi, cioè della decodificazione di messaggi segreti. Per quanto ne sapeva Markov, sua moglie non aveva mai arrestato nessuno, mai interrogato un prigioniero, non era mai stata coinvolta nelle torture e negli omicidi di cui si sussurrava quando qualcuno aveva il coraggio di parlare della polizia segreta.

E Markov era professore di linguistica alla stessa università dove aveva studiato. La sua carriera era stata anonima, tranne che per un particolare: il suo interesse per i codici, la criptologia e le lingue esotiche. Di tanto in tanto, aveva scritto qualche articolo sui linguaggi che creature aliene avrebbero potuto usare per entrare in contatto con la razza umana. Aveva anche scritto un libriccino sui possibili linguaggi extraterrestri, e il governo lo aveva addirittura stampato. Non si chiedeva mai se sarebbe arrivato a tanto senza Maria, se non a volte nel cuore della notte, quando lei aveva da fare in ufficio e lui non aveva trovato nessun’altra con cui andare a letto.

«Non hai freddo, con quella vestaglia?» chiese Maria, chiudendo la porta e depositando a terra la pesante borsa a tracolla.

«No» disse Markov scrutandola da dietro l’orlo degli occhiali. «Non adesso che tu sei qui.»