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Il vicecomandante accennò uno «Zitto!» con le labbra e alzò una mano per far tacere l’altro.

Willie Wilson, col vestito blu ormai inzuppato di sudore, stava terminando il sermone. «Questo “è il nostro” mondo. Gesù Dio l’ha creato per noi e l’ha dato a noi. Ci ha creati per essere qui, per essere felici, per andare e moltiplicarci. Per adorare Lui e odiare il peccato. Ci ha creati nella Sua divina immagine, e quando noi pecchiamo, quando voltiamo la schiena a Gesù, trasformiamo quell’immagine divina in qualcosa di orribile e malvagio.»

Fece una pausa, scrutò a semicerchio la folla.

«C’è da rifletterci sopra, vero? C’è da meditare. Preghiamo, dunque. Meditiamo su quanto sia facile peccare e quanto sia difficile restare nel giusto. E mentre noi meditiamo, i Sacri Cantanti Rock inneggeranno al Signore a modo loro.»

La folla lanciò un ruggito d’approvazione, e un drappello di giovani donne e uomini in tunica, armati di chitarre elettriche e altri strumenti, apparve al centro della palestra.

Tuttle si girò verso l’uomo che aveva a fianco. «Vuoi ripetere?»

«È in mano nostra. L’abbiamo preso oggi pomeriggio. Lo stanno portando alla casa.»

«Bene.»

«Lo spero. Non è più come ai vecchi tempi. Abbiamo agito solo sulla base del tuo ordine.»

«Ha opposto resistenza?» chiese Tuttle.

«No.»

«Quindi, strettamente parlando, vi ha seguito di sua spontanea volontà.»

«Spero che una storia del genere regga, in tribunale.»

«Non si andrà in tribunale.»

«Guarda che non si può più fregare il Servizio di Sicurezza e fare quello che ci pare.»

I Sacri Cantanti Rock si lanciarono in un gospel abbondantemente amplificato. La folla lo riconobbe subito e si mise a battere le mani a tempo.

«Vi coprirò le spalle io» urlò Tuttle. «Era della massima importanza prendere Stoner prima che spifferasse tutto.»

L’uomo al suo fianco rispose qualcosa, ma le parole si persero nella musica e nel battito delle mani.

«Cosa?» gridò Tuttle.

L’uomo, disgustato, scosse la testa, si alzò e uscì fendendo la folla.

Intontito, Keith Stoner sedeva sul letto della stanza dove l’avevano portato. Era un letto comodo, con una bella trapunta bianca sopra. La stanza era piccola ma accogliente. Un camino mai usato in un angolo, un’unica poltrona ricoperta da una stoffa a fiori. Il comodino, una lampada, una sveglia digitale, uno scrittoio, porte che davano su un armadio e in bagno.

E la porta che dava sul corridoio. Chiusa a chiave.

I due uomini che si erano presentati come agenti del servizio segreto della marina avevano trascinato Stoner nella loro Plymouth nera senza dargli la possibilità di dire una sola parola a qualcuno. Solo Jo Camerata sapeva cosa gli era successo.

Avevano viaggiato per ore, e dopo un po’ Stoner aveva capito che stavano deliberatamente cercando di confonderlo, per essere sicuri che lui non riuscisse a ricostruire in seguito il percorso. Col buio, viaggiavano ancora nella campagna nel New England, in genere lungo stradine secondarie.

«Dove diavolo stiamo andando?» aveva chiesto.

«Si calmi» aveva risposto l’agente al suo fianco, sul sedile posteriore. Si chiamava Dooley. L’altro, il più robusto, guidava, il corpo massiccio proteso sul volante.

Stoner aveva cercato di non perdere d’occhio i cartelli stradali, ma procedevano lungo strade secondarie, nell’oscurità totale. Ai loro lati, forse, sfilavano campi aperti, o grandi edifici, o addirittura l’oceano: il cielo si era rannuvolato, e non c’erano lampioni su quelle vie.

Alla fine, avevano imboccato un sentiero di ghiaia. Stoner aveva visto i tronchi enormi di alberi antichissimi, sferzati dalla luce dei fari. Una casa si era profilata davanti a loro: grande, vecchia e tozza, ricoperta da assi di cedro grezzo. La macchina aveva rallentato, e alla luce dei fari Stoner aveva visto aprirsi automaticamente la porta di un garage. Erano entrati in garage e si erano fermati.

«Aspetti un attimo» aveva detto Dooley.

Stoner, immobile, aveva sentito abbassarsi la saracinesca del garage. Poi si erano aperte le portiere dell’auto.

«Okay.»

L’autista era sceso prima di Stoner, e lo attendeva impassibile accanto alla portiera.

«Lei non corre proprio rischi, eh?» aveva detto Stoner.

Dooley si era concesso un sorriso minimo. «Con una cintura nera? L’abbiamo vista in azione.»

“Poveri porci terrorizzati” aveva pensato Stoner. “Hanno soltanto pistole e proiettili.”

L’avevano condotto in casa, una vecchia fattoria yankee palesemente ristrutturata da un miliardario. Le stanze rimaste intatte erano piccole, con soffitti talmente bassi che le travi quasi sfioravano la sua testa. Camini in ogni locale. E termoconduttori elettrici. Finestre termiche. Una cucina scintillante, ultramoderna, e dietro il soggiorno, un secondo cucinino che fungeva da angolo-bar. Il soggiorno era tutto nuovo, ampio, spazioso, con un grande soffitto a cattedrale. In fondo al soggiorno, porte scorrevoli a vetri che davano su una piscina. Non proprio olimpionica, ma piuttosto grande.

L’avevano guidato al primo piano, lungo una scala stretta.

«Questa sarà la sua stanza, dottor Stoner» aveva detto Dooley, aprendo la porta della camera da letto, «Nell’armadio ci sono vestiti che dovrebbero andarle bene. Lì c’è il bagno con la doccia. Calzini e biancheria intima li troverà nei cassetti dello scrittoio.»

«Per quanto fottuto tempo dovrò restare qui?» aveva chiesto. «Non ho diritto a una telefonata, o qualcosa del genere?»

Dooley aveva fatto un altro sorriso cupo, «Le porteremo noi la cena. Domattina verrà qualcuno a parlare con lei. Niente telefonate.»

E così, Stoner se ne stava seduto sul letto, a guardare le gocce di pioggia che cominciavano a cadere sui vetri bui della finestra, ad ascoltare la pioggia che tamburellava sulla vecchia casa.

“È così che devono essersi sentiti quando i nazisti li hanno portati a Dachau” pensò. “Stupiti… confusi… del tutto impreparati.”

E per tutto questo poteva esistere un’unica spiegazione, capì. Volevano tenerlo sotto controllo, impedirgli di rivelare al mondo quello che aveva scoperto.

Il che significava che era davvero prigioniero.

5

Ritengo, di conseguenza, che riceveremo un messaggio, ma non sarà semplice… che arriverà (forse tra dieci anni, o fra cento, o ancora più tardi) quando un radiotelescopio molto efficiente, o qualche altra apparecchiatura similare, ci dimostrerà in modo inequivocabile la presenza della ripetizione deliberata di un messaggio dallo spazio. In primo luogo, il punto più importante sarà riconoscere che si tratta di un messaggio…

Philip Morrison
Life Beyond Earth the Mind of Man
NASA SP-328 — 1973

«Professor Markov, è iscritto al partito?»

Markov annuì verso la donna.

«Però l’Accademia non l’ha mai accettata?»

«Non ancora» rispose lui con un sorriso glaciale.

Erano seduti in un minuscolo locale per interrogatori, una stanza piccolissima, dalle pareti spoglie e senza finestre. Una delle lampade fluorescenti sul soffitto aveva una luce tremolante; Markov ne avvertiva la pressione sul cervello, come l’acqua della tortura cinese. “Sarà voluto?” si chiese. “Farà parte dell’interrogatorio? O è soltanto la solita mancanza di manutenzione?”

La donna seduta all’altro lato del tavolino di legno indossava un’uniforme marrone rossiccio, con mostrine rosse e i gradi da tenente. Non poteva avere più di ventidue anni, e stava prendendo molto sul serio l’interrogatorio.