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Con estrema cautela, mise uno stivale davanti all’altro.

E restò senza fiato.

Una linea di luce apparve improvvisamente su tutta la lunghezza della nave, e dalla sua cuffia uscì un ronzio a bassa frequenza. Non tanto forte da dare fastidio; forte quel tanto che bastava per essere udito.

La linea di luce passò per tutti i colori dello spettro. Era come guardare un arcobaleno sotto una cascata d’acqua.

«Colori!» urlò Stoner, e li descrisse. «Adesso la linea è diventata nera… Penso che sia passata all’infrarosso o all’ultravioletto, oltre i limiti della percezione umana.»

Anche il sibilo che gli giungeva dalla cuffia si alzava e si abbassava di tono. Stoner si accorse che lo sentiva solo nei brevi secondi in cui la luce scompariva.

«Passa per tutto lo spettro elettromagnetico! Luce visibile, frequenze radio… Probabilmente emette anche raggi X e gamma. Mi senti, Nikolai?»

La voce del cosmonauta gli arrivò sopra il ronzio in sottofondo. «Ti sento. I rilevatori ad alta energia sul pannello degli strumenti sono muti.»

Stoner osservò la luce cangiante, affascinato, quasi ipnotizzato. «Mi sta dicendo “Benvenuto a bordo” con tutti i colori dell’arcobaleno.»

La voce smorzata di Federenko rispose: «Passa sulla frequenza radio due. Forse la non c’è il ronzio.»

Provarono tutte quattro i canali radio della tuta. Il ronzio era sempre presente, si muoveva su e giù lungo la scala a ritmo di contrappunto con la luce.

«Fermi tutti!» urlò Stoner. «C’è… qualcosa…»

Verso il muso della nave, la linea di luce si divise all’improvviso in due linee parallele, poi formò un cerchio. Il metallo all’interno del cerchio parve illuminarsi.

«C’è qualcosa più avanti.» Stoner descrisse il cerchio. «Forse è un portello.»

«Stai attento, Shtoner.»

«Vado a vedere.»

Tremante, con la gola secca, troppo eccitato per aver paura, Stoner s’incamminò lentamente verso il cerchio luminoso.

Si fermò all’esterno della circonferenza. Il ronzio in cuffia si alzò fino a diventare uno stridio acuto, poi scomparve. Anche la linea di luce svanì. Ma il cerchio di metallo continuò a risplendere, come se venisse riscaldato dall’interno.

«È luminoso» trasmise Stoner. «Potrebbe essere radioattivo? Una sorgente di calore nucleare? Forse mi hanno fatto arrosto.»

«Qui non registro nessuna radiazione» disse Federenko.

«Forse è lo schermo a bloccarla.»

Federenko non disse nulla.

Però adesso la luce si stava smorzando, e il metallo del cerchio diventava lattiginoso, trasparente. Stoner protese la testa a guardare.

«Mi sembra di vedere qualcosa…»

Lentamente si mise carponi e appoggiò la visiera dell’elmetto sulla superficie biancastra.

«Sembri un pellegrino in preghiera» disse Federenko.

Ignorandolo, Stoner riprese: «Si sta schiarendo. Diventa trasparente. Vedo dentro… Sotto non c’è molta luce, però…»

Chino sulla nave, si costrinse, con uno sforzo enorme di volontà, a guardare dentro. Poi, la verità lo colpì con tutta la forza di un pugno.

«Oh, gran Dio dei cieli» sussurrò. «E un sarcofago.»

44

Manhattan

In un ufficio interno, senza finestre, della ABC, il funzionario della Commissione federale alle comunicazioni scosse la testa, meravigliato.

«Un sarcofago? Cosa diavolo sta dicendo?»

Il vicepresidente della rete televisiva, un giovane nero dall’espressione intelligente, rispose: «Di qualunque cosa si tratti, dobbiamo trasmettere in diretta. “Adesso”.»

Sul monitor c’era Hugh Downs, il commentatore dell’impresa spaziale. Alle sue spalle appariva l’immagine della nave aliena vista dalla Soyuz.

«In diretta? Dal vivo?» Il funzionario impallidì.

«È indispensabile.»

«No! Troppo rischioso. E se trovasse qualcosa di… mostruoso? Il panico…»

Il vicepresidente della ABC puntò l’indice sul monitor. «Metà della popolazione ha già una paura matta di quella cosa, e l’altra metà non crede nemmeno che esista sul serio! Dobbiamo andare in diretta, uomo, lasciare che vedano coi loro occhi. Se no, non ci crederà nessuno!»

«Non sono sicuro…»

«Be’, io sì.» Il nero prese il telefono e diede gli ordini necessari.

L’altro disse, cupo: «Se lo fa lei, anche le altre stazioni cominceranno a trasmettere in diretta.»

«Benissimo. Finché i russi ci mandano questa roba dal vivo, dobbiamo trasmetterla anche noi dal vivo. Quest’idea di andare in differita è una fesseria.»

«Ma io non ho l’autorità per permettere la trasmissione dal vivo! Non dovrebbe coinvolgermi…»

«Senta» scattò il vicepresidente «secondo lei, perché il direttore della rete mi ha messo su questa poltrona che scotta? Solo per favorire l’integrazione razziale? Mi pagano per prendere decisioni, uomo! Se questa cosa funziona, io divento un genio, parto a razzo verso le alte sfere.»

«E se non funziona? Se si scatena il panico o arriva qualche reazione da Washington?»

«Allora me ne torno a Philadelphia, col certificato di morte già in mano.»

«Vedo attraverso il metallo» disse Stoner nel microfono del casco. «Il metallo è diventato trasparente.»

«È morto?» chiese Federenko.

«Deve esserlo. Oppure è ibernato. Forse lo hanno conservato… Con la tecnica criogenica, o qualcosa del genere.»

Il cuore di Stoner era impazzito, e rivoletti di sudore gli correvano sulla pelle, sotto la tuta. Era difficile distinguere i particolari della forma dell’alieno. Vedeva un corpo lungo e d’aspetto robusto disteso su un letto o su un feretro. C’erano testa, spalle, due braccia. Non riusciva a vedere l’estremità inferiore del corpo.

«Continua a parlare» gli ordinò Federenko. «Cosa vedi? Le tue parole vengono trasmesse direttamente a Tyuratam.»

«Okay, okay…»

Stoner avvicinò di nuovo la visiera al portello trasparente, per vedere meglio. E il portello non esisteva più. La sua testa affondò di tre o quattro centimetri sotto l’orlo di metallo che circondava il portello trasparente.

«Oh, no…» Si tirò indietro, poi fece correre le dita lungo l’orlo del cerchio. Al centro c’era il vuoto, come se il metallo che era lì pochi istanti prima si fosse dissolto.

«Nikolai» disse, lottando perché la sua voce non assumesse un tono troppo stridulo. «Il portello… Prima è diventato trasparente, e adesso è scomparso.»

«Scomparso?»

«Completamente. Svanito. Dove un minuto e mezzo fa c’era del metallo si è aperto un foro.»

Federenko chiese, incredulo: «Si è aperto un foro?»

«Sì. Io entro.»

«Aspetta. Prima fammi sentire il controllo missione.»

Stoner scosse la testa all’interno del casco. A quella distanza dalla Terra, occorrevano circa sei secondi perché i messaggi di Federenko arrivassero a Tyuratam, e altri sei perché la risposta raggiungesse la Soyuz. “Più il tempo che sprecheranno a cercare di decidersi” pensò Stoner.

«Io entro» ripeté.

«Aspetta, Shtoner.»

Ma lui aveva già appoggiato le mani sull’orlo del portello e cominciato a infilare le gambe nell’apertura.

«Sono già dentro a metà. Non c’è problema.»

«Shtoner, potrebbe essere pericoloso.»

«Non credo.»

Fluttuò verso il basso, e dopo un attimo i suoi stivali si posarono sul pavimento della nave aliena. Anche lì, come sullo scafo, aderivano dolcemente al metallo.

Stoner girò piano su se stesso, in una panoramica dell’interno del vascello alieno.

«Sono dentro» disse, abbassando inconsciamente la voce. «Mi senti?»

«Ti sento.» La voce di Federenko era più debole, disturbata da interferenze, ma perfettamente comprensibile.