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Togliendo dalla cintura la macchina fotografica stereo, Stoner disse al mondo: «Credo sia ormai chiaro che questo alieno è giunto in pace. Ci offre il suo corpo e i suoi tesori; ce lì regala perché possiamo studiarli. Ci dice che non dobbiamo temere nulla, che fra le stelle vivono altre razze intelligenti. Non siamo soli. L’universo è pieno di vita, di una vita intelligente, civilizzata.»

Si stava perdendo in chiacchiere, e lo sapeva; ma, mentre le sue mani scattavano automaticamente fotografie, continuò: «Non abbiamo nulla da temere! Questa non è la fine del nostro mondo, è appena l’inizio! Capite cosa significa? Le civiltà intelligenti non si distruggono con le guerre o l’inquinamento o la sovrappopolazione… Non sempre, non inevitabilmente. Abbiamo davanti a noi un futuro luminoso e sterminato quanto le stelle, se lottiamo per raggiungerlo, se lavoriamo assieme, tutti assieme… L’intera razza umana come una sola specie, come una sola famiglia, come una famiglia della grande comunità interstellare delle civiltà evolute…»

A Roma, Piazza San Pietro era affollata da decine di migliaia di persone che, in reverente silenzio, guardavano gli schermi televisivi giganti installati dal governo. Alla fine apparve il papa, non al balcone, come al solito, ma in cima alla scalinata della cattedrale, circondato da cardinali in rosso e dalle pittoresche guardie svizzere.

L’enorme folla, con un ruggito assordante, si precipitò verso il pontefice. Il papa sorrise, annuì e benedì tutti.

A Washington, il presidente seguì il rendez-vous nella quiete del suo appartamento, circondato da moglie e figli. Sotto, nell’Ala Ovest, anche i suoi collaboratori guardarono la televisione, e per qualche ora almeno nessuno pensò più all’imminente Convenzione nazionale.

A Mosca, Georgi Borodinski telefonò al comandante della forza missilistica dell’Armata Rossa e gli ordinò personalmente di disattivare i due missili con testata nucleare che erano pronti a intercettare la nave aliena.

A pochi isolati dal Cremlino, il ministro alla sicurezza interna prese da un cassetto della scrivania una piccola pistola e, con un sorriso sardonico sulle labbra, se la puntò alla tempia e premette il grilletto.

Al centro di controllo di Tyuratam, il viso di Jo s’illuminò nel vedere le cifre che apparivano sullo schermo del computer.

Girandosi verso Markov, che era ancora al suo fianco, disse: «Andrà tutto bene! Possiamo riportarli indietro! Devono uscire dall’orbita attuale entro mezz’ora. Se lo faranno, potranno andare alla deriva finché la nuova cisterna non li raggiungerà.»

Markov urlò, sollevò Jo dalla poltroncina e la baciò. Una delle guardie alle loro spalle sobbalzò al frastuono improvviso e puntò su di loro il mitragliatore.

«Ti amo come una sorella!» proclamò ad alta voce Markov. Il compagno della guardia, senza una parola, ma con una smorfia di rimprovero, abbassò sul pavimento la canna dell’arma dell’altro.

Indifferente a ciò che accadeva dietro di lui, Markov aggiunse, in un sussurro all’orecchio di Jo: «Sai, non ho mai creduto a quello stupido tabù che proibisce l’incesto.»

Stoner aveva la gola secca e la voce rauca, ma continuava a parlare, descrivendo nei particolari ogni oggetto presente sulla nave, e a scattare foto stereo. Da Tyuratam e Kwajalein arrivavano domande a catena.

«No, non c’è traccia di altre forme di vita. Né piante né semi né animali. Forse si trovano in altri compartimenti della nave.

«Ho cercato di entrare nelle altre parti della nave, ma non c’è niente da fare. Le paratie non si muovono. Bisognerà studiare parecchio per capire come funzionano i loro meccanismi.

«Credo che la scoperta più importante fra tutti questi oggetti sia la carta stellare. Cioè, penso che sia una carta stellare. Non riconosco nessuna costellazione, ma ci sono incisi simboli grafici, forse un linguaggio… Sembrano cerchi e spirali.»

Lo interruppe la voce profonda di Federenko. «Shtoner, abbiamo i dati per la nuova traiettoria. Ci agganceremo con un’altra aerocisterna. Dobbiamo accendere i retrorazzi tra undici minuti.»

«Undici minuti?» A Stoner si fermò il cuore in petto, e la voce quasi gli si spezzò.

«Dieci minuti e quarantotto secondi, per l’esattezza.»

Gli occhi di Stoner corsero all’alieno morto. “Ha impiegato migliaia d’anni per arrivare qui, e io devo lasciarlo tra dieci fottuti minuti?”

«No» protestò. «Ci serve più tempo. Non possiamo…»

«Non c’è altro tempo» ribatté Federenko. «Rientra immediatamente sulla Soyuz. Non esistono alternative.»

«Nikolai, non posso! Non ancora!»

«Adesso, Shtoner.»

Lui guardò, attraverso lo scafo trasparente del sarcofago, le stelle lontane. Poi la Terra, così piccola e lontana; e infine la Soyuz, tozza, disarmonica.

«Nikolai, ti prego…»

«Dobbiamo partire, Shtoner. O morire qui.»

Il respiro della morte passò su di lui, che si girò a fissare ancora una volta l’alieno. “Hai percorso questa distanza immensa per offrirci il tuo corpo, le tue conoscenze, tutto ciò che sei e rappresenti. Ci sono tante cose da imparare da te…”

«Shtoner.»

«No» disse lui, calmo. «Io non torno con te, Nikolai.»

«Shtoner…»

«Io resto qui, con lui. Forse, tra qualche milione d’anni, un’altra civiltà ci ritroverà, tutte due.»

E spense la radio.

45

Kwajalein

Il sole di mezzogiorno batteva sulla strada silenziosa, deserta. Negli uffici, nei bungalow, nelle case su ruote, tutti gli uomini e tutte le donne dell’isola sedevano, rapiti, davanti agli schermi televisivi. Sintonizzati su un’unica immagine: la nave aliena immobile nel vuoto. E dalla nave uscì, come sempre, la voce di Stoner.

«No. Io non torno con te, Nikolai.»

L’attività frenetica del centro comunicazioni si fermò di colpo. Uomini e donne s’immobilizzarono a metà d’un gesto, fissando gli schermi.

Solo Reynaud reagì.

«No! No, non può farlo! Non deve, non è necessario!» Il cosmologo, rosso in viso, sbuffante, corse verso Tuttle.

«Lasciatemi parlare con lui!» urlò. «Mettetemi in collegamento! In nome di Cristo, lasciatemi parlare con lui!»

Gli occhi di tutti si staccarono dagli schermi per posarsi sullo scienziato impazzito. Tuttle alzò le mani, come a proteggersi dalla furia folle di Reynaud.

«Vuole parlare con Stoner?»

«Sì! Subito! Prima che sia troppo tardi! Posso salvarlo! Lo so!»

Stoner si sentiva stranamente calmo. Ormai, tutte le decisioni importanti erano alle sue spalle. Non c’era più bisogno di lottare. Di preoccuparsi. E capì, tutta la sua vita era corsa in direzione di quell’epilogo. Avrebbe terminato i suoi giorni solo, senza nessuno vicino, lontano da tutti, perso nell’immensità stellata con quella creatura di una razza aliena.

Un altro spirito solitario, pensò, scrutando il viso strano e immobile dell’alieno. “Eri come me, da vivo? È per questo che hai deciso di trascorrere così l’eternità?”

A New York, un monitor stava urlando: «Interrompete la diretta!»

Il vicepresidente della ABC, distrutto, dovette fare uno sforzo tremendo per tenere lontano le mani dal quadro dei comandi. A Mosca, il censore sovietico, livido di rabbia e paura, sbatté il pugno sul pulsante che escludeva dal circuito mondiale la trasmissione della Soyuz. In tutto il mondo, gli schermi televisivi continuarono a mostrare l’immagine della nave aliena ripresa dalle telecamere della Soyuz, ma all’improvviso il commento audio in diretta dallo spazio si era interrotto.

Stoner aveva assunto una posizione quasi fetale, sospeso in aria a una trentina di centimetri dal pavimento. Attraverso le pareti trasparenti della nave vedeva la Terra lontana e la Soyuz, ancora immobile a cento metri di distanza. La nave russa sembrava fissarlo in un muto atto d’accusa.