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Riaccese la radio della tuta.

«Devi rientrare» stava dicendo Federenko, con frenetica determinazione. «È un ordine. Restano solo sette minuti…»

«Nikolai, ho appena compreso qualcosa» disse Stoner. Il cosmonauta si zittì. «Questa nave, questa tomba, dev’essere stata costruita in modo da dirigersi verso stelle di tipo G. Ci scommetterei. Il nostro amico deve provenire da una stella simile al Sole.»

«Non c’è tempo per le tue meditazioni filosofiche, Shtoner.»

«E quando raggiunge una stella di tipo G, si dirige verso i pianeti con un forte campo magnetico. Dev’essere così! È per questo che all’inizio ha puntato su Giove: la magnetosfera più forte del sistema solare. E poi verso la Terra, il campo magnetico più potente fra i pianeti interni.»

«Sei minuti e trenta secondi» mugugnò Federenko.

«I campi magnetici forti costituiscono un bersaglio per due motivi» proseguì Stoner, ignorandolo. «Uno, la nave si serve dell’energia elettromagnetica per ricaricare i suoi accumulatori, o qualunque altra cosa usi per immagazzinare energia. Però, molto più importante, è probabile che solo pianeti con un forte campo magnetico possano dare origine alla vita. La vita “ha bisogno” di un forte campo magnetico che faccia da ombrello, per proteggere la superficie del pianeta dalle radiazioni cosmiche!»

«Shtoner, basta con questa follia, Rientra a bordo.»

«Hai ricevuto tutto, Nikolai? Hai ritrasmesso a Terra? È importante!»

«Sì, sì. Ma adesso rientra.»

Alla CBS, Cronkite si stava esibendo in un pezzo di bravura: con l’immagine della nave aliena sullo schermo, continuava a parlare, raccontando fatti, congetture, precedenti storici, opinioni. Nel frattempo, i dirigenti della rete stavano telefonando freneticamente a Washington, per vedere se non fosse possibile ricevere ancora in diretta l’audio dalla Soyuz.

Alla Casa Bianca, il presidente era corso in sala trasmissioni, dove l’audio giungeva su una linea riservata con Mosca. Un assistente stupefatto disse al presidente che c’era Walter Cronkite al telefono. Il presidente rispose immediatamente, e restò molto deluso quando scoprì che a urlare in modo frenetico e incomprensibile al telefono era solo il produttore di Cronkite.

Dopo qualche parola di rassicurazione, Cronkite in persona venne all’apparecchio. Il presidente acconsentì a che i suoi tecnici trasmettessero alla CBS il commento audio che arrivava dalla Soyuz. Cronkite esitò un attimo, poi chiese che lo stesso favore venisse fatto anche alle altre reti. Il presidente annuì e sorrise.

«Barbara sarà fiera di te, Walter» disse.

Al presidente parve che Cronkite si mettesse a farfugliare. «Grazie, signor presidente» disse la famosa voce. «Se ora volete scusarmi, signore, devo tornare alle telecamere.»

«Certo, Walter» disse il presidente. «Dio ti benedica.»

Jo sedeva come paralizzata alla consolle. Nel grande centro di controllo, tutto parve fermarsi, come se le centinaia di uomini e donne che lavoravano lì avessero smesso all’unisono di respirare.

La ragazza guardò il viso stravolto di Markov.

«Si ucciderà.»

«Devi impedirglielo» disse Markov. «Devi!»

«E come posso…?»

«Nessun altro lo può» disse Markov, chinandosi su di lei, afferrandola per le spalle, concitato. «Ti ama. Sei l’unica cosa che lo tenga legato alla vita. Parlagli! Subito!»

Stordita, Jo rispose: «Ma da questa consolle non si può trasmettere…»

Markov si girò verso Zworkin, a sua volta nervosissimo. «Faccia qualcosa! La prego! La ragazza deve parlargli!»

Zworkin si inumidì le labbra, fissò incerto le guardie che avevano attorno. «Tenterò…»

«D’ora in poi dovrete lavorare tutti assieme» stava dicendo Stoner. «Tutte le nazioni del mondo. La situazione non potrà mai più essere la stessa di prima. Esistono altre creature nello spazio, altre razze, altre intelligenze, e sono curiose e coraggiose quanto noi.»

«Cinque minuti, Shtoner!»

«Cinque minuti, cinque ore… Non fa nessuna differenza, Nikolai. Nessuna.»

«Aspetta… Una comunicazione da Terra. Sulla frequenza due.»

«No» disse Stoner. «Non voglio parlare con loro.»

«È un messaggio personale. Una donna, miss Camerata. È molto sconvolta, Shtoner.»

Lui s’interrogò un attimo, poi premette il pulsante della frequenza due.

«Keith! Mi senti?» La voce di Jo tremava d’ansietà.

«Sì, Jo, ti sento.»

Silenzio. Stoner ricordò che occorrevano circa dodici secondi perché la risposta di lei gli giungesse. “Sono talmente lontano che mi è impossibile sostenere una conversazione normale con Jo.”

«Ti prego, non farlo! Non commettere questa follia, Keith! Torna, te ne prego!»

«Non posso, Jo. Non adesso. Se resto qui, posso trasmettervi altri particolari su questa arca, sul nostro visitatore. È una fonte meravigliosa di conoscenze. Non posso andarmene dopo pochi minuti e lasciare che si perda per sempre.»

Mentre le sue parole raggiungevano Jo e lei rispondeva, Stoner restò a fissare la piccola luna che era la Terra.

«Ma ti ucciderai!»

«Avrò più di un’ora per continuare a trasmettere, prima che Federenko sia troppo lontano. Potrò descrivervi nei particolari tutto quello che c’è qui dentro.»

Lui aspettò, contò i secondi, preparò le frasi che avrebbe detto poi.

«E morirai!» esclamò Jo. «Morirai lassù!»

«Non è una cosa tanto terribile. La mia vita non ha mai significato molto per nessuno.»

Era meglio così: aveva il tempo di pensare, il tempo di prepararsi alla voce di lei, di congelare le proprie emozioni, di mettersi sulla difensiva.

«La tua vita è importante, maledetto idiota! Non puoi buttarla!»

«Sono contento di morire qui, Jo. Non è il modo peggiore per andarmene.»

Notò che ai margini della visiera si stava di nuovo formando brina, nonostante l’impianto termico fosse al massimo. Il freddo gli stava penetrando nel corpo; ne avvertiva il sapore metallico.

«No, Keith, no!» C’erano lacrime nella voce di Jo. «Torna! Torna da me! Hai tante cose per cui vivere…»

«No, non è vero, Jo. Questo è l’apice della mia vita. Tutto il mio passato portava a questo momento. Che altro potrei fare di meglio?»

«Non puoi gettare la vita in questo modo! Abbiamo ancora davanti tutte le nostre vite!»

«Tu hai la tua, Jo. Sei giovane, hai il mondo intero a disposizione.»

Passarono i secondi d’intervallo, e poi: «Ma l’hai detto tu stesso che il mondo non potrà più essere quello di prima, adesso che ci siamo incontrati con l’alieno.» La voce di Jo era stridula, impaurita, «Non siamo più gli stessi! Non lo sono io e non lo sei tu. È un mondo nuovo, Keith. Abbiamo bisogno di te qui. Io ho bisogno di te, ho bisogno di averti vicino.»

«Tre minuti, Shtoner.»

Prima che lui potesse rispondere all’una o all’altro, una nuova voce gli disse: «Sintonizzatevi sulla frequenza tre. Messaggio prioritario di Kwajalein.»

Quasi lieto di staccarsi dalla voce di Jo, Stoner passò sulla frequenza tre; e fu come tagliare un cordone ombelicale.

«Parli, Kwaj.»

«Dottor Stoner?» La voce era eccitata, familiare, «Sono il dottor Reynaud, da Kwajalein.»

Per un attimo, Stoner si sentì come esilarato. Gli venne voglia di ridere. Reynaud, il nostro monaco. Cercherà di salvare la mia anima?

«Mi stia a sentire, la prego!» urlò Reynaud nella cuffia. «Ho studiato i dati che il computer ha ricavato dalla traiettoria della nave aliena. Se anche la lascerà, non andrà persa per sempre. È chiaro? Non andrà persa per sempre!»

«Vuole dire che riusciremo a seguirla col radar?» chiese Stoner. «E che importanza ha?»