Jim annuì, distratto. Passai ad un altro argomento che mi rendeva perplesso.
«Gli Yunwi Tsundsi, Jim, che cosa sono? Non me ne hai mai parlato, a quanto ricordo. Cosa dice la leggenda?»
«Oh… il Piccolo Popolo.» Si accosciò al mio fianco, ridacchiando, ridestato dalla sua fantasticheria. «Erano nella terra dei Cherokee, quando i Cherokee vi giunsero. Erano una razza di pigmei, come quelli dell’Africa e dell’Australia contemporanee. Ma non erano neri. Questi piccoletti corrispondono alla descrizione. Naturalmente, le tribù ci ricamarono un po’ sopra: dicevano che avevano la pelle color rame ed una statura media di sessanta centimetri. In realtà, hanno la pelle dorata e sono alti in media novanta centimetri. In quanto a questo, comunque, potrebbero aver cambiato colore della pelle ed essere diventati più alti, stando qui. Per il resto, corrispondono alle descrizioni: capelli lunghi, forme perfette, tamburi e tutto quanto.»
Jim continuò a parlarmi del Piccolo Popolo. I suoi esponenti erano vissuti nelle caverne, soprattutto nella regione che comprende il Tennessee ed il Kentucky attuali. Erano un popolo sanguigno, e adoravano la vita: qualche volta erano scandalosamente rabelaisiani. Erano amichevoli nei confronti dei Cherokee, ma stavano sulle loro e si facevano vedere di rado. Aiutavano spesso coloro che si perdevano tra le montagne, soprattutto i bambini. Se soccorrevano qualcuno e lo conducevano nelle loro caverne, lo avvertivano che non doveva rivelarne l’ubicazione, altrimenti sarebbe morto. E secondo le leggende, se quello la rivelava moriva davvero. Se qualcuno si nutriva del loro cibo doveva stare molto attento quando ritornava alla propria tribù, e doveva riprendere lentamente la vecchia dieta, altrimenti moriva.
Il Piccolo Popolo era assai suscettibile. Se qualcuno li seguiva nella foresta, gli gettavano un incantesimo, e per giorni interi quello perdeva il senso dell’orientamento. Erano esperti nel lavorare il legno e i metalli, e se un cacciatore trovava nella foresta un coltello, una punta di freccia o un qualsiasi altro oggetto, prima di raccoglierlo doveva dire: «Piccolo Popolo, voglio prenderlo». Se non lo chiedeva, non riusciva più a uccidere neppure un capo di selvaggina e gli accadeva un’altra disgrazia. Una che faceva soffrire sua moglie.
Il Piccolo Popolo era gaio. Trascorrevano metà del tempo danzando e suonando i tamburi. Avevano tamburi di tutti i tipi: tamburi che facevano cadere gli alberi, altri che inducevano il sonno, altri che spingevano alla follia, altri che parlavano ed altri che tuonavano. Tuonavano esattamente come il tuono, e quando gli omini del Piccolo Popolo li percuotevano, presto scoppiava un vero temporale, perché erano così simili alla realtà che destavano i temporali, i quali accorrevano per chiacchierare con quello che ritenevano fosse un membro vagabondo della loro famiglia…
Ricordai il rombo di tuono che aveva seguito la cantilena; mi chiesi se era stata la sfida del Piccolo Popolo a Khalk’ru…
«Ho un paio di domande da rivolgerti, Leif.»
«Fai pure, indiano.»
«Che cosa ricordi, effettivamente, di… Dwayanu?»
Non gli risposi subito; era la domanda che avevo temuto fin da quando avevo gridato quelle parole all’Incantatrice, sulla riva del fiume bianco.
«Se ci stai pensando sopra, va bene. Se stai cercando un modo per eludere la domanda, va malissimo. Ti chiedo una risposta molto franca.»
«Tu sei convinto che io sia quell’antico uiguro reincarnato? Se è così, allora forse hai una teoria circa il posto dove sarei stato durante le migliaia d’anni trascorse da quell’epoca ad oggi.»
«Oh, dunque anche tu sei assillato dalla stessa idea, non è vero? No, non stavo pensando esattamente alla reincarnazione. Anche se ne sappiamo così poco che non la escluderei. Ma c’è una spiegazione più ragionevole. Ecco perché ti ho chiesto: che cosa ricordi, effettivamente, di Dwayanu?»
Decisi di prendere di petto il problema.
«Sta bene, Jim,» dissi. «La stessa domanda ha continuato ad ossessionare la mia mente, insieme a Khalk’ru, per tre anni. Se non riesco a trovare qui la risposta, tornerò a cercarla nel Gobi… se ce la farò ad uscire. Quando ero in quella stanza nell’oasi, in attesa della chiamata del vecchio sacerdote, ricordai con perfetta lucidità che era stata la stanza di Dwayanu. Conoscevo il letto, e le armi e l’armatura. Mentre guardavo uno degli elmi metallici, ricordai che Dwayanu… o io… aveva ricevuto su di esso un terribile colpo di mazza. Lo presi, e c’era un’ammaccatura, esattamente nel punto preciso in cui ricordavo che era stato colpito. Riconobbi le spade, e rammentai che Dwayanu — o io — aveva l’abitudine di impugnare con la sinistra una più pesante di quella che stringeva nella destra. Bene, una era molto più pesante dell’altra. E anch’io uso meglio la mano sinistra della destra. Questi ricordi, o quel che erano, mi arrivarono a sprazzi. Per un momento ero Dwayanu, più me stesso, e guardavo con divertito interesse quegli antichi oggetti ben noti: e un attimo dopo ero soltanto me stesso e mi chiedevo, senza la minima ilarità, che cosa significava tutto ciò.»
«Sì, e che altro?»
«Ecco, non sono stato completamente sincero a proposito del rituale,» dissi, a disagio. «Ti ho detto che era come se una altra persona si fosse impadronita della mia mente e l’avesse compiuto. Era vero, in un certo senso… ma Dio mi aiuti, io sapevo sempre che quell’altra persona… ero io! Mi pareva di essere due individui ed uno solo nello stesso tempo. È difficile spiegarlo in modo chiaro… tu sai che può capitare di dire una cosa e di pensarne un’altra. Immagina di poter dire una cosa e di pensare due cose contemporaneamente. Era così. Una parte di me si ribellava, in preda all’orrore, atterrita. L’altra parte, al contrario, sapeva di possedere il potere ed era felice di esercitarlo… e dominava la mia volontà. Ma entrambe erano… me. Inequivocabilmente, inconfondibilmente me. Al diavolo, uomo, se avessi creduto veramente che fosse un’altra cosa, un’altra persona, oltre me stesso, credi che proverei un simile rimorso? No, è perché sapevo di essere io… la stessa parte di me che conosceva l’elmo e le spade. È per questo che da allora sono sempre stato ossessionato.»
«Nient’altro?»
«Sì. I sogni.»
Jim si protese verso di me e parlò in tono tagliente.
«Quali sogni?»
«Sogni di battaglie… sogni di festini… il sogno di una guerra contro uomini gialli, e un campo di battaglia in riva ad un fiume, nuvole di frecce che sibilavano sopra la testa… combattimenti corpo a corpo in cui impugnavo un’arma simile ad un enorme martello, contro uomini giganteschi dai capelli gialli che so essere simili a me… sogni di città turrite che io attraversavo, mentre donne bianche dagli occhi azzurri lanciavano ghirlande di fiori davanti al mio cavallo… Quando mi ridesto i sogni sono vaghi, e presto si disperdono. Ma io so sempre che quando li sognavo erano chiari, nitidi… veri come la realtà…»
«È per questo che sapevi che la Donna-lupo era l’Incantatrice? Grazie ai sogni?»
«Se è così, non lo ricordo. So soltanto che all’improvviso l’ho riconosciuta per ciò che era… o l’ha riconosciuta il mio altro io.»
Jim rimase seduto per qualche istante senza dir nulla.
«Leif» chiese poi, «in quei sogni hai preso parte al culto di Khalk’ru? Hai avuto qualcosa a che fare con la sua adorazione?»
«Sono sicuro di no. Me lo ricorderei, per Dio! Non sogno neppure il tempio del Gobi.»
Jim annuì, come se avessi confermato un suo pensiero; poi rimase zitto così a lungo che io m’innervosii.
«E allora, Uomo della Medicina degli Tsalagi, qual è la diagnosi? Reincarnazione, possessione demoniaca, oppure pura e semplice follia?»
«Leif, non avevi mai fatto sogni di quel genere, prima dell’episodio del Gobi?»
«Mai.»
«Bene… Mi sono sforzato di ragionare come farebbe Barr, di far quadrare tutto con la mia materia grigia. Ecco il risultato. Sono convinto che quanto mi hai raccontato sia opera del vecchio sacerdote. Ti dominava quando hai visto te stesso cavalcare verso il tempio di Khalk’ru… e rifiutasti di entrare. Tu non sai che altro può averti suggerito in quel momento, ordinandoti di dimenticarlo consciamente quando fossi tornato in te. È un semplice caso d’ipnotismo. Ma poi lui ebbe un’altra occasione per suggestionarti. Mentre dormivi, quella notte. Come puoi avere la certezza che non sia venuto a suggestionarti ancora? Ovviamente, voleva che tu credessi di essere Dwayanu. Voleva che tu ‘ricordassi’: ma poiché aveva già avuto una lezione, non voleva che tu ricordassi quello che succedeva con Khalk’ru. Ciò spiegherebbe perché tu sognasti gloria e splendore e altre cose piacevoli, ma non quelle spiacevoli. Era un vecchio saggio… questo sei tu stesso a dirlo. Conosceva la tua psicologia a sufficienza per prevedere che ti saresti impuntato ad una certa fase del rituale. Infatti fu così: ma lui ti aveva imbrigliato a dovere. Immediatamente, scattò il comando postipnotico impartito al subconscio. Tu non potevi fare a meno di proseguire. Benché il tuo io conscio fosse perfettamente desto, non era in grado di dominare la tua volontà. Penso che Barr direbbe così. E io sarei d’accordo. Diavolo, esistono droghe capaci di simili scherzi. Non è necessario pensare a migrazioni dell’anima, a dèmoni o ad altre superstizioni medievali, per spiegarlo.»