«Sì,» dissi speranzoso ma poco convinto. «E l’Incantatrice?»
«Una donna simile a lei nei tuoi sogni, ma dimenticata. Credo che la mia spiegazione sia esatta. E se lo è, Leif, la faccenda mi preoccupa.»
«Non riesco a seguirti,» dissi.
«No? Bene, prova a riflettere. Se tutte le cose che ti tormentano derivano da suggestioni impartite dal vecchio sacerdote… che altro ti ha suggerito? È chiaro che sapeva qualcosa di questo luogo. Supponi che prevedesse la possibilità che tu lo trovassi. Cosa avrebbe voluto che tu facessi, dopo averlo trovato? Qualunque cosa fosse, puoi scommetterci le tue possibilità di andartene di qui che il vecchio l’ha radicata profondamente nel tuo subconscio. D’accordo: poiché è una deduzione ragionevole, che cosa farai quando entrerai in contatto più stretto con quelle signore dai capelli rossi che abbiamo visto, e con quei pochi fortunati gentiluomini che condividono il loro paradiso? Io non ne ho la minima idea… e non l’hai neanche tu. E se questo non è preoccupante, dimmi tu che cosa lo è. Vieni, andiamo a dormire.»
Entrammo nella tenda. Vi eravamo già stati prima, insieme a Evalie. Allora era vuota, a parte un mucchio di morbide pelli e di stoffe seriche in un angolo. Adesso i mucchi erano due. Ci svestimmo nell’oscurità verdepallida e ci sdraiammo. Io diedi un’occhiata al mio orologio.
«Sono le dieci,» dissi. «Quanti mesi sono passati da stamattina?»
«Almeno sei. Se mi tieni sveglio, ti ammazzo. Sono stanchissimo.»
Lo ero anch’io. Ma rimasi sveglio a lungo, a pensare. Non ero molto persuaso degli argomenti di Jim, per quanto fossero plausibili. Certo, non credevo di avere dormito per secoli in una specie di limbo extraspaziale. E neppure di essere stato quell’antico Dwayanu. C’era una terza spiegazione, per quanto non mi piacesse più della reincarnazione: e presentava le stesse spiacevoli possibilità della spiegazione di Jim.
Non molto tempo prima, un illustre medico e psicologo americano aveva affermato di aver scoperto che l’uomo normale usava solo all’incirca una decima parte del proprio cervello: e in genere gli scienziati gli avevano dato ragione. I pensatori più grandi, i genii completi, come Leonardo da Vinci o Michelangelo, potevano al massimo usarne un altro decimo. Qualunque uomo che fosse capace di usare tutto il proprio cervello poteva dominare il mondo… ma probabilmente non ci avrebbe tenuto. Nel cranio umano c’era un mondo esplorato al massimo per un quinto.
Che cos’era la terra incognita del cervello… cos’erano quegli otto decimi inesplorati?
Bene, innanzi tutto potevano essere un magazzino di ricordi ancestrali, ricordi che risalivano a quelli degli antenati scimmieschi e villosi dell’uomo, e poi ancora più indietro, fino a quelli degli esseri pinnati che erano saliti dagli antichissimi mari per incominciare la marcia verso l’uomo… e più indietro ancora, fino ai loro predecessori che avevano lottato e si erano riprodotti negli oceani fumiganti quando nascevano i continenti.
Milioni e milioni d’anni di ricordi! Quale patrimonio di sapere, se la coscienza dell’uomo fosse riuscita ad attingervi!
Tutto questo non era più incredibile di quanto lo fosse l’idea che la memoria fisica della specie potesse venire contenuta nelle due singole cellule che avviano il ciclo della nascita. In quelle due cellule vi sono tutte le complessità del corpo umano: cervello e nervi, muscoli, ossa e sangue. E vi sono anche le caratteristiche che chiamiamo ereditarie: le rassomiglianze familiari, non soltanto nel viso e nel corpo ma anche nei pensieri, nelle abitudini, nelle emozioni e nelle reazioni all’ambiente: il naso del nonno, gli occhi della bisnonna, l’irascibilità del trisnonno, e via di seguito. Se tutto ciò venisse trasmesso da quei quarantasette o quarantotto bastoncelli microscopici entro i gameti, che i biologi chiamano cromosomi, minuscoli Dèi misteriosi della nascita che stabiliscono sin dall’inizio quale mistura degli antenati sarà un bimbo od una bimba, perché non potevano trasmettere anche le esperienze accumulate, i ricordi di quegli antenati?
Nel cervello umano poteva esservi un reparto di dischi, ognuno perfettamente inciso con i solchi della memoria, in attesa che la puntina della coscienza li percorresse per renderli articolati.
Forse ogni tanto la coscienza li sfiorava, di tanto in tanto, e li leggeva. Forse vi erano alcune persone che, per una bizzarra anomalia, possedevano una capacità limitata di attingere al loro contenuto.
Se era vero, questo poteva spiegare molti misteri. Le voci fantasma di Jim, per esempio. La mia strana capacità di apprendere rapidamente le lingue.
Supponiamo che io fossi disceso proprio da quel Dwayanu. E che nel mondo sconosciuto del mio cervello, la mia coscienza, ciò che io ero adesso, potesse protendersi fino a toccare i ricordi che erano stati Dwayanu. Oppure che quei ricordi si agitassero e raggiungessero la mia coscienza. Quando questo accadeva… Dwayanu si destava e viveva. E io, allora, ero contemporaneamente Dwayanu e Leif Langdon!
Non poteva darsi che il vecchio sacerdote lo sapesse? Con le parole ed i riti e le suggestioni, come aveva detto Jim, si era spinto nella terra incognita ed aveva ridestato quei ricordi che erano Dwayanu?
Quei ricordi… erano molto forti. Non erano stati interamente sopiti: altrimenti non avrei imparato tanto rapidamente l’uiguro… non avrei vissuto quegli strani, riluttanti barlumi di identificazione prima ancora d’incontrare il vecchio sacerdote…
Sì, Dwayanu era forte. E inspiegabilmente sapevo anche che era spietato. Avevo paura di Dwayanu… dei ricordi che un tempo erano stati Dwayanu. Non avevo il potere di ridestarli, e non avevo il potere di dominarli. Per due volte si erano impadroniti della mia volontà e mi avevano sospinto in disparte.
E se fossero divenuti più forti?
E se fossero divenuti interamente me?
XI
I TAMBURI DEL PICCOLO POPOLO
Per sei volte la luce verde della Terra Oscurata s’era offuscata nel buio smeraldino che era la sua notte, ed io non avevo udito né visto l’Incantatrice né coloro che abitavano dall’altra parte del fiume bianco. Erano stati sei giorni e sei notti densi d’interesse e di curiosità. Eravamo andati insieme a Evalie tra i pigmei dorati, per tutta la loro piana ben difesa; e ci eravamo aggirati da soli tra loro, a volontà.
Li avevamo guardati lavorare e giocare, avevamo ascoltato i loro tamburi e ammirato, stupiti, le loro danze… così complesse e straordinarie da essere più complicate armonie corali che semplici passi e gesti. Talvolta i pigmei danzavano a gruppetti di dodici o poco più, ed era come un semplice canto. Ma talvolta danzavano a centinaia, allacciati, su prati dalle zolle piatte; e allora erano sinfonie tradotte in misure coreografiche.