Ballavano sempre al suono dei loro tamburi: non conoscevano altra musica e non ne avevano bisogno. I tamburi del Piccolo Popolo erano di molte forme e dimensioni: la loro gamma si estendeva su dieci ottave, e produceva non solo i semitoni della nostra scala, ma anche quarti e ottavi di tono e gradazioni ancora più sottili che facevano uno strano effetto all’ascoltatore… o almeno a me. Quei suoni andavano dal basso più profondo delle canne d’organo fino agli acuti di soprano. I pigmei ne suonavano alcuni con i pollici e le dita, altri con il palmo delle mani, altri ancora con le bacchette. Vi erano tamburi che bisbigliavano, altri che ronzavano; tamburi che ridevano, altri che cantavano.
Le danze ed i tamburi, soprattutto i tamburi, evocavano strani pensieri e strane immagini; i tamburi bussavano alle porte di un altro mondo… ed ogni tanto le aprivano quanto bastava per permettere di scorgere immagini fuggevoli, bizzarramente belle e bizzarramente inquietanti.
Dovevano esserci tra i quattro e i cinquemila pigmei nei trenta chilometri quadrati, più o meno, della piana fertile e coltivata racchiusa dalla barriera; quanti ce ne fossero al di fuori, non avevo possibilità di saperlo. Evalie ci disse che esisteva una dozzina o più di piccole colonie. Erano gli avamposti per la caccia e per le attività minerarie, da cui provenivano le pelli, i metalli e le altre cose che erano lavorate e poi utilizzate. Al Ponte Nansur c’era una forte guarnigione di guerrieri. L’equilibrio naturale, a quanto riuscii a sapere da Evalie, li manteneva ad un numero più o meno costante: diventavano adulti in fretta e le loro vite non erano lunghe.
Evalie ci parlò di Sirk, la città di coloro che erano sfuggiti al Sacrificio. A giudicare dalla sua descrizione doveva trattarsi di un luogo inespugnabile, edificato contro le pareti di roccia, cinto di mura; le sorgenti bollenti che sgorgavano alla base dei suoi bastioni formavano un fossato invalicabile. C’era guerra incessante tra il popolo di Sirk ed i lupi bianchi di Lur, in agguato nella foresta circostante per intercettare quelli che fuggivano da Karak per andare a rifugiarsi là. Ebbi la sensazione che esistessero rapporti segreti tra quelli di Sirk ed i pigmei dorati: forse l’orrore per il Sacrificio, comune a entrambi, e la ribellione degli abitanti di Sirk contro gli adoratori di Khalk’ru costituivano un legame. Quando potevano, i pigmei li aiutavano, e avrebbero addirittura fatto causa comune con loro, se non fosse stato per l’antica paura di quanto sarebbe accaduto se avessero violato il patto concluso dai loro antenati con gli Ayjir.
Fu qualcosa che mi disse Evalie, ad indurmi a pensare così.
«Se tu avessi svoltato dall’altra parte, Leif, e se fossi sfuggito ai lupi di Lur… saresti giunto a Sirk. E forse questo avrebbe arrecato un grande cambiamento, perché a Sirk ti avrebbero accolto volentieri, e chissà cosa sarebbe avvenuto, con te come loro condottiero. Ed il mio Piccolo Popolo, allora, non…»
S’interruppe, e per quanto io insistessi, non volle completare la frase. Allora le dissi che c’erano troppi «se» in quella faccenda, ed ero contento che i dadi avessero dato il risultato che avevano dato. Evalie sembrò rallegrarsene.
Ebbi un’esperienza che non condivisi con Jim. Sul momento, non ne riconobbi il significato. Come ho detto, i pigmei adoravano la vita: quello era il loro credo, la loro fede. Qua e là, sparsi sulla piana, c’erano piccoli tumuli, veri e propri altari su cui, intagliati in legno o in pietra o in avorio fossile, stavano gli antichi simboli della fertilità: talvolta soli, talvolta a coppie, e talvolta in una forma curiosamente simile allo stesso simbolo degli antichi egizi, la crux ansata che Osiride, il Dio della Resurrezione, teneva in mano per toccare con essa, nel Regno dei Morti, le anime che avevano superato tutte le prove e che avevano meritato l’immortalità.
Accadde il terzo giorno. Evalie mi ordinò di andare con lei, e solo. Ci incamminammo per il sentiero ben curato che si snodava alla base delle pareti di roccia, in cui i pigmei avevano le loro caverne. Le minuscole donne dagli occhi d’oro ci sbirciavano e trillavano ai figli piccoli come bambole, al nostro passare. Gruppi di anziani, maschi e femmine, ci vennero incontro danzando e si accodarono a noi. Reggevano tutti tamburi di un tipo che non avevo ancora visto. Non li suonavano, e non parlavano neppure: un gruppo alla volta presero a seguirci, in silenzio.
Dopo un po’, notai che non c’erano più caverne. Circa mezz’ora dopo, aggirammo un bastione di roccia. Ci trovammo sul limitare di un praticello tappezzato di muschio, fine e soffice come un mucchio di tappeti di seta. Il prato era ampio forse centocinquanta metri, e profondo circa altrettanto. Di fronte a me c’era un altro bastione. Sembrava scolpito da un cesello arrotondato, che avesse ricavato un semicerchio nel precipizio. In fondo al prato c’era qualcosa che a prima vista mi parve un enorme edificio a cupola; poi mi accorsi che era una sporgenza della roccia.
Nell’enorme masso arrotondato c’era un’apertura ovale, non molto più grande d’una comune porta. Mentre guardavo, fermo e meravigliato, Evalie mi prese la mano e mi condusse in quella direzione. Varcammo la soglia.
La roccia a cupola era cava.
Era un Tempio del Piccolo Popolo: lo compresi, naturalmente, non appena ne superai la soglia. Le pareti di pietra verde e fresca salivano incurvandosi dolcemente. Non era buio, nel tempio. La cupola di roccia era stata traforata, come dall’ago di una merlettaia, e la luce entrava da centinaia di feritoie. Le pareti la catturavano e la disperdevano in migliaia di angoli cristallini all’interno della pietra. Il pavimento era rivestito di muschio soffice e fitto, anch’esso lievemente luminoso, che intensificava la strana luce diffusa; doveva coprire almeno uno spazio di due acri.
Evalie mi trascinò avanti. Al centro esatto del pavimento c’era una depressione, simile ad un’immensa ciotola. Tra quella e me stava uno dei simboli della croce ansata, tre volte più alta di un uomo di buona statura. Era levigata, e scintillava come se fosse stata ricavata da un colossale cristallo ametistino. Mi voltai a guardare. I pigmei che ci avevano seguiti si stavano riversando attraverso la porta ovale.
Si affollarono dietro di noi, mentre Evalie mi prendeva di nuovo per mano e mi guidava verso la croce. Tese la mano ed io guardai nella conca.
E vidi il Kraken!
Era là, disteso entro la conca, i tentacoli neri che si aprivano a ventaglio dal corpo rigonfio, gli enormi occhi neri che fissavano imperscrutabili i miei!
Il vecchio orrore mi riprese. Spiccai un balzo all’indietro, imprecando.
I pigmei si affollavano attorno alle mie ginocchia, fissandomi intenti. Sapevo che portavo scritto in faccia tutto il mio orrore. Cominciarono a trillare eccitati, scambiandosi cenni con il capo, gesticolando. Evalie li osservò con aria grave, poi vidi il suo volto schiarirsi in un’espressione di sollievo.
Mi sorrise, e m’indicò ancora la conca. Mi feci forza e guardai. E questa volta mi accorsi che la figura era abilmente scolpita. I terribili occhi insondabili erano gemme simili a giaietto. All’estremità di ognuno dei tentacoli lunghi quindici metri era stata piantata una croce ansata, che lo trafiggeva come una spina: ed una ancora più grande trapassava il corpo mostruoso.
Ne compresi il significato: la Vita che teneva prigioniero il nemico della Vita, lo rendeva impotente, lo immobilizzava con il segreto, antico simbolo sacro di ciò che esso aspirava a distruggere. E la grande croce ansata lassù… vegliava e vigilava, come il dio della vita.