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«È stato un sogno menzognero, allora! Dormi, tesoro.»

Evalie sospirò. Vi fu un lungo silenzio; poi, con voce assonnata: «Che cosa porti appeso al collo, Leif? Il dono di una donna, che conservi come un tesoro?»

«Non è il dono di una donna, Evalie. È la verità.»

Mi baciò… e si addormentò.

Fui un pazzo a non dirglielo allora, all’ombra di quell’antico simbolo… Ma fui un pazzo… non glielo dissi!

XII

SUL PONTE NANSUR

Quando uscimmo dal tempio, nel mattino, una cinquantina di anziani, uomini e donne, stavano aspettando pazienti la nostra comparsa. Pensai che fossero gli stessi che ci avevano seguito sotto la cupola quando vi ero entrato per la prima volta.

Le minuscole donne si raccolsero intorno ad Evalie. Avevano portato dei panni e l’avvolsero dalla testa ai piedi. Lei se ne andò con loro, senza concedermi una parola né un’occhiata. La scena aveva un’aria cerimoniale: la sposa veniva condotta via dalle mature comari della razza degli elfi.

Gli omettini si radunarono attorno a me. C’era anche Sri: ne fui lieto perché, quali che fossero i dubbi degli altri che mi attorniavano, sapevo che lui non ne aveva. Mi dissero di andare con loro, ed io obbedii senza fare domande.

Pioveva: c’era l’umidità ed il calore della giungla. Il vento soffiava con le stesse folate regolari e ritmiche della notte precedente. La pioggia non sembrava tanto cadere quanto condensarsi in grosse gocce nell’aria circostante, salvo quando il vento soffiava, e allora volava quasi orizzontale. L’aria era come un vino fragrante. Avevo voglia di cantare e di ballare. Intorno rombava il tuono… non i tamburi, il tuono vero.

Io avevo indosso soltanto la camicia e i calzoni; avevo abbandonato gli stivali alti fino al ginocchio per dei sandali. In un paio di minuti mi ritrovai bagnato fradicio. Arrivammo ad una polla fumigante e ci fermammo. Sri mi disse di spogliarmi e d’immergermi.

L’acqua era caldissima e mi rinvigoriva; mentre vi guazzavo mi sentivo sempre meglio. Pensai che, qualunque cosa evessero avuto in mente i pigmei quando avevano spinto me ed Evalie nel tempio, la loro paura nei miei confronti era stata esorcizzata… almeno per il momento. Ma credevo di sapere che cosa avevano pensato. Sospettavano che in qualche modo Khalk’ru avesse potere su di me, come l’aveva sugli altri cui somigliavo. Forse non un gran potere… ma non potevano ignorarlo. Benissimo: perciò il rimedio, dacché non potevano uccidermi senza spezzare il cuore a Evalie, consisteva nell’inchiodarmi come avevano fatto con il Kraken che era il simbolo di Khalk’ru. Perciò mi avevano inchiodato servendosi di Evalie.

Uscii dalla polla, più pensoso di quanto vi fossi entrato. Mi misero indosso un perizoma dalle pieghe e dai nodi strani. Poi trillarono e cinguettarono e risero e danzarono.

Sri aveva preso i miei abiti e la mia cintura. Non volevo perderli, perciò quando ci avviammo lo seguii a brevissima distanza. Presto ci fermammo… davanti alla caverna di Evalie.

Dopo un po’ vi fu una gran confusione, canti e rulli di tamburi, e poi sopraggiunse Evalie con un folto gruppo di donnine che danzavano intorno a lei. La condussero dove io ero in attesa. Poi si allontanarono tutti a passo di danza.

Fu tutto. La cerimonia, se pure era una cerimonia, era terminata. Comunque, mi sentivo molto sposato.

Abbassai lo sguardo su Evalie e lei lo alzò verso di me, graziosamente. I suoi capelli non erano più sciolti, ma intrecciati intorno al capo, alle orecchie e al collo. I drappi che l’avevano avvolta erano spariti. Indossava il grembiulino delle matrone pigmee ed i finissimi veli argentei. Rise, mi prese per mano, ed entrammo nella caverna.

Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, udimmo una fanfara di trombe squillare piuttosto vicino. Squillarono forte e a lungo, come se chiamassero qualcuno. Uscimmo nella pioggia per ascoltare meglio. Notai che il vento aveva cambiato direzione, da Nord ad Est, e soffiava forte e costante. Ormai sapevo che l’acustica della terra sotto il miraggio era peculiare, e che non era possibile stabilire quanto fossero lontane le trombe. Erano dall’altra parte del fiume, naturalmente, ma non sapevo quanto distasse dalla riva il pendio fortificato dei pigmei. Sul muro c’era una certa attività, ma senza agitazione.

Vi fu un ultimo squillo di tromba, rauco e irridente. Fu seguito da uno scoppio di risa ancora più sardonico e irritante perché umano. Mi strappò alla mia indifferenza con un trasalimento: mi fece vedere rosso.

«Quello,» disse Evalie, «era Tibur. Suppongo che sia andato a caccia con Lur. Credo che stesse ridendo di… di te, Leif.»

Aveva arricciato sdegnosamente il nasetto delicato, ma un sorriso le incurvò gli angoli delle labbra quando vide divampare rapida la mia collera.

«Ascolta, Evalie: chi è questo Tibur?»

«Te l’ho detto: è Tibur il Fabbro, e governa gli Ayjir insieme a Lur. Viene sempre, quando io sono su Nansur. Abbiamo parlato… spesso. È molto forte… oh, forte.»

«Sì?» feci io, ancora più esasperato. «E perché viene, Tibur, quando tu sei là?»

«Oh! Perché mi desidera, naturalmente,» disse lei, in tono sereno.

L’antipatia per Tibur il Ridente crebbe ancora.

«Non riderà più, se riuscirò a mettergli le mani addosso,» borbottai.

«Che cosa hai detto?» chiese Evalie. Io tradussi, meglio che potevo. Lei annuì e incominciò a parlare: e poi vidi i suoi occhi spalancarsi e riempirsi di terrore. Udii un frullo sopra la mia testa.

Dai vapori era uscito in volo un grande uccello. Rimase librato quindici metri sopra di noi, guardandoci con i minacciosi occhi gialli. Un grande uccello… un uccello bianco…

Il falcone bianco dell’Incantatrice!

Sospinsi Evalie dentro la caverna e l’osservai. Per tre volte girò in cerchio sopra di me e poi, con uno strido, si avventò verso l’alto, tra i vapori, e scomparve.

Entrai per raggiungere Evalie. Era rannicchiata sul giaciglio di pelli. Si era sciolta la chioma, che le spioveva sulla testa e sulle spalle, nascondendola come un manto. Mi piegai su di lei, le scostai i capelli. Piangeva. Mi gettò le braccia al collo e mi tenne stretto, fortemente. Sentivo il suo cuore battere contro il mio come un tamburo.

«Evalie, tesoro… non è il caso di aver paura.»

«Il… il falcone bianco, Leif!»

«È solo un uccello.»

«No… L’ha mandato Lur.»

«Sciocchezze, mio tesoro bruno. Un uccello vola dove vuole. Era in caccia… oppure aveva perduto l’orientamento, nella nebbia.»

Evalie scosse il capo.

«Ma, Leif, io… ho sognato un falcone bianco…»

La tenni stretta; dopo un poco mi spinse via e mi sorrise. Ma ci fu poca gaiezza, per il resto del giorno. E quella notte i suoi sogni furono inquieti, e lei mi tenne vicino, e pianse e mormorò nel sonno.

Il giorno dopo ritornò Jim. Avevo la sensazione che mi sarei sentito a disagio al suo rientro. Cosa avrebbe pensato di me? Non avrei dovuto preoccuparmi. Non mostrò la minima sorpresa quando misi le carte in tavola. E poi mi resi conto che, logicamente, i pigmei si erano scambiati messaggi con i tamburi, e che avevano discusso la cosa con lui.

«Niente male,» disse Jim, quando ebbi terminato. «Se non te ne andrai, credo che sia la cosa migliore per tutti e due. Se te ne andrai, condurrai Evalie con te… o no?»

Quella domanda mi ferì.

«Ascolta, indiano, non mi piace come parli. Io l’amo.»

«D’accordo, allora formulerò la domanda in un altro modo. Dwayanu l’ama?»

Quella domanda fu come uno schiaffo sulla bocca. Mentre mi sforzavo di trovare una risposta, Evalie uscì di corsa. Andò incontro a Jim e lo baciò. Lui le batté la mano sulla spalla e l’abbracciò come un fratello maggiore. Evalie mi guardò, mi venne vicina, mi fece abbassare la testa e baciò anche me, ma non esattamente come aveva baciato Jim.