Evalie sembrava profondamente assorta nei suoi pensieri, e Jim era in preda ad una delle sue crisi di taciturnità indiana. Io non avevo molta voglia di parlare. Fu un tragitto silenzioso: neppure i pigmei dorati chiacchieravano secondo la loro abitudine. Arrivammo ad una sorgente scintillante, e bevemmo. Uno dei nanetti si mise davanti un piccolo tamburo cilindrico e cominciò a battere un messaggio. Dopo un po’ gli risposero altri rulli, più avanti.
Riprendemmo il cammino. Le conifere iniziarono a diradarsi. A sinistra, molto più in basso di noi, cominciai a intravvedere il fiume bianco e la fitta foresta sulla sponda opposta. Le conifere finirono, e uscimmo su di un deserto roccioso. Proprio davanti a noi c’era uno sperone di pietra, alla cui base scorreva il fiume candido, e nascondeva alla nostra vista ciò che stava oltre. I pigmei si fermarono e mandarono un altro messaggio con il tamburo. La risposta venne, sorprendentemente vicina. Poi, oltre il ciglio del precipizio, a metà altezza, scintillarono molte punte di lancia. Un gruppo di minuscoli guerrieri ci scrutò. Fecero un segnale, e noi avanzammo attraverso la spianata sassosa.
Un’ampia strada saliva il costone: avrebbero potuto passarci sei cavalli fianco a fianco. La percorremmo. Arrivammo in cima, ed io guardai il Ponte Nansur e la turrita Karak.
Un tempo, migliaia d’anni prima, o centinaia di migliaia, lì c’era stata una piccola montagna, che sorgeva dal fondovalle. Nanbu, il fiume bianco, l’aveva disgregata tutta… eccettuata una vena di roccia adamantina. Il Nanbu aveva scavato, scavato, sgretolando la pietra più tenera, fino a quando era stato valicato da un ponte che sembrava un arcobaleno di giaietto. L’arco gigantesco di roccia nera volava sopra l’abisso nella linea incurvata di un tiro di freccia.
La sua base, a ogni riva, era una mesa… scolpita come Nansur dall’antica montagna.
La mesa su cui mi trovavo aveva la sommità piatta. Ma sull’altra sponda del fiume, sporgente dalla cima dell’altra mesa, c’era una costruzione immane, quadrangolare, della stessa roccia nera che formava l’arco di Nansur. Sembrava intagliata in quella roccia, più che costruita. Calcolai che coprisse circa mezzo chilometro quadrato. Era coronata da torri e torrette, rotonde e quadrangolari, e cinta da mura.
C’era qualcosa in quell’immensa cittadella d’ebano che mi colpì con la stessa sensazione di prescienza che avevo provato cavalcando tra le rovine nell’oasi del Gobi. Pensai che somigliava anche alla città di Dite, scorta da Dante alle porte dell’Inferno. E l’antichità l’avvolgeva come una veste a lutto.
Poi mi avvidi che Nansur era spezzato. Tra l’arcata che si levava dalla sponda in cui stavamo noi e l’arcata che si slanciava dal fianco della cittadella nera, c’era un varco. Sembrava che un maglio gigantesco si fosse abbattuto sull’aerea curva, schiantandola al centro. Pensai al Ponte Bifrost, su cui cavalcavano le valchirie, trasportando al Valhalla le anime dei guerrieri: e pensai che spezzare il Ponte Nansur era stato un sacrificio atroce, come sarebbe stato infrangere Bifrost.
Intorno alla cittadella sorgevano altri edifici, a centinaia, fuori dalle mura: edifici di pietra grigia e bruna, circondati da giardini, si estendevano per acri ed acri. Ai lati della città c’erano campi fertili e boschetti fioriti. Un’ampia strada si spingeva lontano, verso i precipizi avvolti dalle cortine verdi. Mi sembrò di scorgere, alla sua estremità, l’imboccatura nera di una caverna.
«Karak!» sussurrò Evalie. «E il Ponte Nansur! E Leif, caro… il mio cuore è pesante… così pesante!»
La udii appena, mentre guardavo Karak. Ricordi furtivi avevano incominciato a fremere. Li calpestai, e cinsi Evalie con un braccio. Avanzammo, e capii perché Karak era stata costruita in quel punto; perché la cittadella nera dominava entrambe le estremità della valle, e quando Nansur era ancora intatto aveva dominato anche quella via d’accesso.
Provai all’improvviso l’impulso febbrile di avventarmi su Nansur e di guardare Karak dalla sua estremità troncata. La lentezza dei pigmei m’irritava. Mi avviai. I guerrieri della guarnigione si affollarono attorno a me, guardandomi, bisbigliando tra loro e studiandomi con quegli occhi gialli. Incominciarono a rullare i tamburi.
Risposero le trombe della cittadella.
Accelerai ancora il passo, in direzione di Nansur. La febbre dell’impazienza era divenuta divorante. Avrei voluto correre. Spinsi da parte, spazientito, i pigmei dorati. La voce di Jim mi giunse, ammonitrice: «Calma, Leif… Calma!»
Non gli prestai ascolto. Mi spinsi sopra Nansur. Vagamente, mi resi conto che era largo, e che i lati erano difesi da bassi parapetti, che la pietra era stata levigata in una rampa, per il passo dei cavalli e degli uomini in marcia. E che, se era stato il fiume candido a formarlo, erano state le mani degli uomini a terminare di scolpirlo.
Ne raggiunsi l’estremità spezzata. Trenta metri sotto di me, il fiume bianco scorreva placido. Non c’erano serpenti. Un corpo rossocupo, mostruoso, simile ad una sanguisuga, si sollevò dalla corrente lattea: poi un altro e un altro, con le bocche rotonde spalancate… le sanguisughe del Piccolo Popolo montavano di guardia.
C’era un ampio spiazzo tra le mura della cittadella scura e l’estremità del ponte. Era deserto. Nelle mura erano incastonati massicci battenti di bronzo. Provai un fremito curioso, dentro di me, mi sentii serrare la gola. Dimenticai Evalie; dimenticai Jim; dimenticai tutto, guardando quella porta.
Vi fu uno squillo più forte di trombe, un clangore di sbarre, e i battenti si aprirono. Uscì al galoppo uno squadrone guidato da due cavalieri, uno su di un grande cavallo nero, l’altro su di uno bianco. Attraversarono lo spiazzo, balzarono dalle cavalcature e avanzarono a piedi sul ponte. Si fermarono di fronte a me, al di là dello squarcio di quindici metri.
Sul cavallo nero era giunta l’Incantatrice: l’altro lo riconobbi per Tibur il Fabbro… Tibur il Ridente. In quel momento non avevo occhi per l’Incantatrice e per il suo seguito. Avevo occhi soltanto per Tibur.
Era più basso di me di tutta la testa, ma una forza grande quanto la mia o ancora di più parlava dalle spalle immense, dal corpo massiccio. I capelli rossi scendevano lisci sulle spalle, e anche la barba era rossa. Gli occhi erano azzurroviola, e agli angoli avevano le grinze della risata; e la bocca larga e semiaperta era ridente. Ma la risata che aveva inciso quelle linee sulla faccia di Tibur non era gaia e felice.
Indossava una cotta di maglia; al fianco sinistro gli pendeva un enorme martello da guerra. Mi squadrò dalla testa ai piedi e viceversa con gli occhi socchiusi, sarcastici. Sebbene avessi odiato Tibur prima di vederlo, quel sentimento non era nulla in confronto a ciò che provavo ora.
Deviai lo sguardo da lui all’Incantatrice. Mi stava bevendo con gli occhi azzurri come fiordalisi; assorta, meravigliata… divertita. Anch’ella indossava una cotta di maglia, su cui scendevano le trecce rosse. Coloro che stavano raccolti dietro Tibur e l’Incantatrice erano per me solo una chiazza confusa.
Tibur si protese.
«Benvenuto… Dwayanu!» m’irrise. «Che cosa ti ha indotto a uscire dal nascondiglio? La mia sfida?»