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Non fu una nuotata piacevole, no! L’acqua brulicava di dorsi rossi e viscidi. Senza dubbio, fu soltanto Sri a salvarmi. Tornò indietro in fretta, e nuotò in cerchio più volte attorno a me, mentre io nuotavo pesantemente: e scacciò le sanguisughe.

Toccai terra, e m’inerpicai sopra le rocce, al sicuro sul greto. Il pigmeo dorato mi lanciò un ultimo richiamo. Non potei sentire ciò che disse. Rimasi in piedi ad ansimare per riprendere fiato, e lo vidi guizzare nell’acqua bianca come un giallo pesce volante: una dozzina di rosse schiene limacciose scivolarono nella sua scia.

Alzai gli occhi verso il Ponte Nansur. Dalla parte del Piccolo Popolo, l’estremità ed i parapetti erano affollati di pigmei che mi osservavano. L’altra parte era vuota. Mi guardai intorno. Ero nell’ombra delle mura della cittadella nera. Si levavano lisce, inespugnabili, per trenta metri. Fra me e quelle mura c’era un ampio spiazzo, simile a quello su cui erano usciti Tibur e l’Incantatrice dopo aver varcato la porta di bronzo. Era orlato da tozze case di pietra, ad un solo piano; c’erano molti alberelli fioriti. Dietro quelle case ve ne erano altre, più grandi, più pretenziose, meno affollate. Più vicino, parte dello spiazzo era occupata da un mercato all’aperto.

Dalle case e dal mercato dozzine di persone si riversarono nella mia direzione. Venivano a passo svelto ma in silenzio, senza chiamarsi l’una con l’altra, senza farsi segnali… intente a fissarmi. Cercai la mia pistola automatica e bestemmiai, ricordando che non la portavo più da parecchi giorni. Qualcosa mi lampeggiò in mano…

L’anello di Khalk’ru! Dovevo essermelo infilato al pollice quando i pigmei mi avevano assalito. Bene, era stato l’anello a portarmi lì. Sicuramente, l’effetto su questa gente non doveva essere inferiore a quello che aveva avuto su coloro che mi avevano fronteggiato attraverso lo squarcio nel ponte. Comunque, non avevo altro. Lo girai, in modo che la pietra rimanesse nascosta all’interno della mano.

Adesso erano vicini: erano soprattutto donne, ragazze e bambine. Indossavano tutte indumenti molto simili: un camice che arrivava loro alle ginocchia e lasciava scoperto il seno sinistro. Senza eccezioni avevano capelli rossi ed occhi azzurri, carnagioni biancolatte e rosachiaro, ed erano tutte alte, forti, magnifiche. Sembravano fanciulle e madri vichinghe giunte ad accogliere il ritorno di una nave da una lunga scorreria sul mare. Le bambine erano piccoli angeli dagli occhi azzurri. Vidi gli uomini; non erano molti: una dozzina circa. Anche loro avevano i capelli rossi e gli occhi azzurri. I più vecchi portavano corte barbe, i più giovani avevano il volto rasato. Non erano molto più alti delle donne, in media. Nessuno di loro, uomini o donne, era più alto di me: li superavo tutti di almeno mezza testa. Non avevano armi.

Si fermarono a pochi metri da me, guardandomi in silenzio. I loro sguardi mi scrutarono, e si fermarono sui miei capelli gialli.

Vi fu un trambusto dietro alla folla. Una dozzina di donne si fecero largo e si diressero verso di me. Indossavano gonnellini; portavano spade corte alle cinture, ed in mano stringevano giavellotti: a differenza delle altre, avevano i seni coperti. Mi circondarono con i giavellotti levati, così vicine che le punte quasi mi toccavano.

Gli occhi azzurri e luminosi della comandante erano arditi, più degni di un soldato che di una donna.

«Lo straniero dai capelli gialli! Oggi Luka ci sorride!»

La donna che le stava accanto si tese a bisbigliarle qualcosa, ed io afferrai le parole.

«Tibur ce lo pagherebbe più di Lur.»

La comandante scosse il capo.

«Troppo pericoloso. La ricompensa di Lur ce la godremo più a lungo.»

Mi scrutò, con molta franchezza.

«È una vergogna sprecarlo,» disse.

«Lur non lo sprecherà,» rispose l’altra, cinicamente.

La comandante mi spinse con il giavellotto, indicando le mura della cittadella.

«Avanti, Capelli Gialli,» disse. «È un peccato che tu non possa capirmi. Altrimenti ti direi qualcosa per il tuo bene… A pagamento, s’intende.»

Mi sorrise, mi sospinse di nuovo. Provai l’impulso di sogghignare: sembrava proprio un sergente, un duro che avevo conosciuto in guerra. Invece le parlai in tono severo.

«Fai venire qui Lur con una degna scorta, o donna dalla lingua che rivaleggia con le bacchette del tamburo.»

Lei mi guardò a bocca aperta, e si lasciò sfuggire dalle mani il giavellotto. Evidentemente, sebbene fosse stato dato l’allarme per me, non si era risaputo che sapevo parlare l’uiguro.

«Fai venire qui Lur, immediatamente,» dissi io. «Altrimenti, per Khalk’ru…»

Non completai la frase. Girai l’anello e alzai la mano.

La folla lanciò un gemito di terrore. Caddero tutti in ginocchio, a capo chino. La soldatessa si sbiancò in viso, e insieme alle sue compagne s’inginocchiò davanti a me. Poi si sentì uno stridore di sbarre. Un immenso blocco di pietra si aprì nelle mura della cittadella, non molto lontano.

Da quell’apertura, come chiamata dalle mie parole, uscì a cavallo l’Incantatrice; Tibur le stava a fianco, e dietro di loro veniva il drappello che mi aveva osservato dal Ponte Nansur.

Si fermarono a fissare la folla inginocchiata. Poi T’ibur spronò il cavallo; l’Incantatrice tese una mano e lo fermò. Si parlarono. La soldatessa mi toccò un piede.

«Permettici di alzarci, o Signore,» disse. Annuii, e lei balzò ritta, con un ordine alle sue donne. Mi accerchiarono di nuovo. Lessi la paura ed una supplica negli occhi della comandante, e le sorrisi.

«Non temere. Non ho sentito niente,» bisbigliai.

«Allora hai un’amica in Dara,» mormorò lei. «Per Luka… ci bollirebbero, per quello che abbiamo detto!»

«Non ho sentito niente,» ripetei.

«Favore per favore,» sussurrò lei. «Sorveglia la mano sinistra di Tibur, se dovessi batterti con lui.»

Il drappello si era mosso: avanzò lentamente verso di noi. Quando fu più vicino, vidi che il viso di Tibur era aggrottato, e che si controllava con grande fatica. Arrestò il cavallo al limitare della folla. S’infuriò; per un attimo pensai che stesse per travolgere tutta quella gente.

«In piedi, porci!» ruggì. «Da quando Karak s’inginocchia davanti a qualcuno, eccettuati i suoi sovrani?»

La gente si alzò, si ammucchiò spaventata mentre il drappello passava. Io levai lo sguardo verso l’Incantatrice e il Ridente.

Tibur mi lanciò uno sguardo fulminante, cercando con la mano il martello; i due uomini robusti che l’avevano fiancheggiato sul ponte si spinsero adagio verso di me, con le lunghe spade sguainate. L’Incantatrice non disse nulla, studiandomi intenta eppure con una certa cinica impersonalità che mi sembrò inquietante; evidentemente non aveva ancora idee precise sul mio conto, e aspettava una parola od una mossa da parte mia per decidersi. La situazione non mi piaceva molto. Se fossimo arrivati ad una zuffa, avrei avuto scarse possibilità contro tre uomini a cavallo, per non parlare delle donne. Avevo la sensazione che l’Incantatrice non volesse vedermi ucciso subito, ma forse sarebbe arrivata troppo tardi in mio soccorso… e a parte questo non avevo nessuna intenzione di essere malmenato, legato e trascinato a Karak come prigioniero.

E poi, cominciavo a provare un rovente, irragionevole risentimento verso quella gente che osava sbarrarmi il passo, osava impedirmi di andare dove volevo: era un’arroganza appena desta… un fremere di ricordi misteriosi che mi avevano ossessionato da quando portavo l’anello di Khalk’ru…