Ebbene, quei ricordi mi erano stati utili sul Ponte Nansur, quando Tibur mi aveva lanciato contro il martello… e che cosa mi aveva detto Jim…? Di lasciar fare a Dwayanu quando mi trovavo di fronte all’Incan tattice… ebbene, facesse pure… era l’unico modo… il più ardimentoso… il vecchio modo…
Fu come se sentissi le parole!
Spalancai la mente ai ricordi o… a Dwayanu!
Vi fu, nel mio cervello, una piccola scossa tintinnante, e poi il gonfiarsi di un’ondata che si avventava verso quella coscienza che era Leif Langdon. Riuscii a respingerla prima che sommergesse completamente quella coscienza. Si ritirò, riluttante… ma non di molto. Non importava, purché non mi travolgesse… Spinsi da parte le soldatesse e mossi verso Tibur. Un riflesso di quanto era accaduto doveva essersi impresso sul mio volto, doveva avermi cambiato. Il dubbio s’insinuò negli occhi dell’Incantatrice; Tibur lasciò cadere la mano dal martello e fece rinculare il cavallo. Parlai, e la mia voce collerica risuonò estranea alle mie stesse orecchie.
«Dov’è il mio cavallo? Dove sono le mie armi? Dove sono il mio stendardo e i miei lanceri? Perché i tamburi e le trombe tacciono? È questo il modo in cui viene accolto Dwayanu quando giunge ad una città degli Ayjir? Per Zarda, è intollerabile!»
Fu l’Incantatrice a parlare, con un tono beffardo nella voce limpida e profonda, ed io intuii che in qualche modo avevo perduto quel po’ di presa che prima avevo avuto su di lei.
«Arresta la tua mano, Tibur! Parlerò io a… Dwayanu. E tu… se sei Dwayanu, non puoi biasimarci. È passato tanto, tanto tempo dall’ultima volta che occhi umani si sono posati su di te… e mai in questa terra. Quindi, come potevamo conoscerti? E quando ti abbiamo visto la prima volta, i piccoli cani gialli ti hanno indotto a fuggire da noi. E quando ti abbiamo visto la seconda volta, i piccoli cani gialli ti hanno fatto fuggire verso di noi. Se non ti abbiamo ricevuto come è dovuto a Dwayanu in una città degli Ayjir, è pur vero che nessuna città degli Ayjir è mai stata visitata da Dwayanu in questo modo.»
Ebbene, era perfettamente vero: un ragionamento ammirevole, lucido e tutto il resto. Quella parte di me che era Leif Langdon e che era impegnata in una lotta disperata per conservare la supremazia, lo riconobbe. Eppure la collera irragionevole crebbe. Alzai l’anello di Khalk’ru.
«Forse non conoscerete Dwayanu… ma conoscete questo!»
«Io so che l’hai tu,» disse l’Incantatrice, con calma. «Ma non so come l’hai avuto. Da solo, non dimostra nulla.»
Tibur si sporse, sogghignando.
«Dicci da dove vieni. Sei un rampollo di Sirk?»
Dalla folla si levò un brusìo. L’Incantatrice si protese, aggrottando le sopracciglia. La sentii mormorare, quasi con disprezzo: «La forza tu non l’hai mai avuta nel cervello, Tibur!»
Comunque io gli risposi.
«Io vengo,» dissi aspro, «dalla Madrepatria degli Ayjir, dalla terra che vomitò i tuoi tremanti antenati, rospo rosso!»
Scoccai uno sguardo all’Incantatrice; la mia risposta l’aveva scossa. La vidi irrigidirsi: i suoi occhi di fiordaliso si spalancarono e si oscurarono, le labbra rosse si schiusero; le sue donne si chinarono l’una verso l’altra, bisbigliando, mentre il brusio della folla cresceva.
«Tu menti!» ruggì Tibur. «Non c’è vita nella Madrepatria. Non c’è vita al di fuori di qui. Khalk’ru ha succhiato la terra privandola della vita. Tranne qui. Tu menti!»
Abbassò la mano sul martello.
E all’improvviso vidi rosso; tutto il mondo si dissolse in una nebbia rossa. Il cavallo dell’uomo più vicino era un nobile animale. L’avevo osservato… era uno stallone roano, forte quanto quello nero che mi aveva portato via dall’oasi del Gobi. Alzai la mano, gli afferrai il muso e lo costrinsi a piegare le ginocchia. Colto alla sprovvista, il suo cavaliere fu disarcionato, caprioleggiò sopra la testa del cavallo e mi cadde ai piedi. Si rialzò come un gatto, e fece per avventare un affondo con la spada. Gli afferrai il braccio prima che potesse colpire, sferrai un pugno con la sinistra. Lo centrai alla mascella: rovesciò la testa all’indietro e cadde. Agguantai la spada e balzai in groppa al cavallo che si stava rialzando. Prima che Tibur potesse muoversi, gli avevo già accostato alla gola la punta della spada.
«Fermo! Ammetto che tu sei Dwayanu! Trattieni la tua mano!»
Era la voce dell’Incantatrice, bassa, quasi un sussurro.
Io risi. Premetti più forte la punta della spada contro la gola di Tibur.
«Sono Dwayanu? Oppure un rampollo di Sirk?»
«Tu sei… Dwayanu!» ringhiò quello.
Risi ancora.
«Io sono Dwayanu! Allora guidami a Karak per fare ammenda della tua insolenza, Tibur!»
Gli scostai la spada dalla gola.
Sì, la scostai… e per tutti gli dei pazzeschi della mia mente pazza, vorrei che in quel momento gliel’avessi invece piantata in gola!
Ma non lo feci; e quell’occasione passò. Parlai all’Incantatrice.
«Cavalca alla mia destra: e Tibur ci preceda.»
L’uomo che io avevo abbattuto s’era rialzato, e barcollava malfermo sulle gambe. Lur parlò ad una delle sue donne che smontò da cavallo e con l’aiuto dell’altro seguace di Tibur lo fece salire in sella.
Attraversammo lo spiazzo, ed entrammo nella cittadella nera.
XIV
NELLA CITTADELLA NERA
Le sbarre che fermavano la porta scesero con un tonfo alle nostre spalle. Il passaggio attraverso le mura era ampio e lungo, fiancheggiato da soldati, quasi tutte donne. Mi guardavano: erano ben disciplinati, perché tacquero, salutandoci con le spade sguainate.
Uscimmo in una piazza immensa, circondata dalla torreggiante roccia nera della cittadella. Era pavimentata di lastre di pietra, e dovevano esserci circa cinquecento soldati, quasi tutte donne, e tutti forti, con occhi azzurri e capelli rossi. La piazza era quadrata, e misurava almeno quattrocento metri per lato. Di fronte al punto da cui eravamo entrati, c’era un gruppo di persone a cavallo, della stessa categoria di quelle che ci seguivano, o almeno così mi parve. Erano raccolte intorno ad un portale, all’estremità opposta della piazza: ci avviammo al trotto verso di loro.
Circa a un terzo del percorso, passammo accanto a una fossa circolare, ampia una trentina di metri, in cui l’acqua bolliva e gorgogliava, esalando vapori. Una sorgente calda, pensai: potevo sentirne il respiro. Era cinta da strette colonne di pietra: da ognuna di queste sporgeva un braccio trasversale, come fossero forche, e da ogni braccio pendevano catene sottili. Quel posto aveva un’aria malaugurante, indefinibile. Non mi piaceva affatto. Un riflesso di quel pensiero dovette balenare sul mio volto, perché Tibur parlò, in tono blando.
«Il nostro pentolone.»
«Non deve essere facile attingervi il brodo,» dissi. Pensai che avesse scherzato.
«Ah… ma la carne che si cuoce qui non è del tipo che noi mangiamo,» rispose Tibur, in tono ancora più blando. E scoppiò in una risata ruggente.
Provai un senso di nausea, quando compresi il significato. Era la torturata carne umana quella che le catene dovevano reggere, abbassandola lentamente verso quel calderone diabolico. Mi limitai però ad annuire, indifferente, e proseguii.
L’Incantatrice non aveva fatto caso a noi: china la testa color ruggine, era immersa nei suoi pensieri, anche se di tanto in tanto mi lanciava occhiate oblique. Ci fermammo davanti al portale. Lei fece un segnale a coloro che aspettavano lì: una dozzina di fanciulle e di donne dai capelli rossi ed una mezza dozzina di uomini. Quelli smontarono. L’Incantatrice si sporse verso di me e bisbigliò:
«Gira l’anello in modo che il sigillo sia coperto.»