Le obbedii, senza fare domande.
Arrivammo al portale e guardai il gruppo in attesa. Le donne indossavano la tunica che lasciava scoperto un seno, e calzoni ampi legati alle caviglie; portavano alte cinture con appese due spade, una lunga e una corta. Gli uomini indossavano bluse sciolte, e calzoni eguali: dalle loro cinture, accanto alle spade, pendevano martelli come quello del Fabbro, ma più piccoli. Le donne che si erano radunate attorno a me quando ero uscito dal Nanbu erano senz’altro belle, ma queste erano molto più attraenti, più splendide, con un’aria aristocratica che le altre non avevano. Mi scrutavano sfacciatamente come avevano fatto la soldatessa e la sua luogotenente: i loro sguardi si posarono sui miei capelli gialli e vi rimasero, come stregati. Su tutti i loro volti c’era quella stessa ombra di crudeltà latente nella bocca amorosa di Lur.
«Smontiamo,» disse l’Incantatrice. «Andiamo dove potremo… conoscerci meglio.»
Annuii di nuovo, indifferente. Avevo pensato di aver commesso un gesto imprudente avventurandomi da solo tra quella gente; ma avevo pensato anche che non avrei potuto fare null’altro, se non andare a Sirk, e non sapevo neppure dove fosse; e se mi ci fossi provato sarei stato un fuorilegge braccato su entrambe le sponde del bianco Nanbu. La parte di me che era Leif Langdon pensava a questo… ma la parte di me che era Dwayanu pensava in modo completamente diverso. Soffiava sul fuoco dell’implacabilità e dell’arroganza che mi avevano condotto fin lì indenne; bisbigliava che nessuno degli Ayjir aveva il diritto di farmi domande o di sbarrarmi la via, sussurrava con insistenza crescente che avrebbero dovuto ricevermi abbassando gli stendardi, tra rulli di tamburi e fanfare di trombe. La parte di me che era Leif Langdon rispondeva che non potevo far altro che continuare così, perché quello era il gioco da giocare, la linea da seguire, l’unica via. E quell’altra parte, gli antichi ricordi, il risveglio di Dwayanu, la suggestione postipnotica del vecchio sacerdote del Gobi, chiedeva impaziente perché dovevo dubitare anche di me stesso, e insisteva che non era un gioco, bensì la verità. E diceva che avrebbe tollerato ancora per poco l’insolenza di quei cani degenerati della Grande Razza… e la mia viltà!
Perciò balzai da cavallo, e guardai con arroganza, dall’alto in basso, i visi levati verso di me, poiché ero alto almeno una decina di centimetri più del più alto di loro. Lur mi sfiorò il braccio. Tra lei e Tibur varcai il portale ed entrai nella cittadella nera.
Attraversammo un immenso vestibolo, fiocamente illuminato dalle feritoie che si aprivano nella roccia levigata. Passammo davanti a numerosi gruppi di soldatesse che ci salutarono in silenzio, e incrociammo molti corridoi trasversali. Finalmente ci trovammo davanti ad una grande porta vigilata da sentinelle: Lur e Tibur congedarono le loro scorte. La porta si aprì, lentamente: entrammo e si richiuse dietro di noi.
La prima cosa che vidi fu il Kraken.
Si stendeva su una parete della camera in cui eravamo entrati. Il cuore mi balzò in petto quando lo vidi, e per un istante provai l’impulso quasi incontrollabile di voltarmi e di fuggire. Poi mi accorsi che si trattava soltanto di un mosaico incastonato nella pietra nera. O meglio, il campo giallo su cui spiccava era un mosaico, e la Piovra Nera era stata intagliata nella superficie del muro. Gli insondabili occhi di giaietto mi guardavano, con quel riflesso di profonda malvagità che i pigmei dorati avevano saputo imitare così perfettamente nel simbolo prigioniero nel loro tempio.
Qualcosa si mosse, accanto al Kraken. Sotto un cappuccio nero, una faccia si sporse a guardarmi. In un primo istante pensai che fosse il vecchio sacerdote del Gobi, ma poi mi accorsi che quell’uomo non era tanto vecchio, che i suoi occhi erano di un azzurro chiaro più intenso, e che il volto non aveva rughe, era freddo, bianco ed inespressivo, quasi scolpito nel marmo. Allora ricordai ciò che mi aveva detto Evalie, e capii che doveva essere Yodin, il Gran Sacerdote. Era assiso su di un seggio simile ad un trono, dietro una tavola lunga e bassa, dove stavano rotoli simili ai papiri egizi e cilindri di metallo rosso che immaginai fossero le custodie. Alla sua destra ed alla sua sinistra c’erano altri due troni.
L’uomo alzò una mano bianca ed esile e mi fece un cenno.
«Vieni a me… tu che dici di chiamarti Dwayanu.»
La voce era fredda e spassionata quanto il volto, ma cerimoniosa. Mi sembrò di udire il vecchio sacerdote, quando mi aveva chiamato a sé. Mi accostai, più nello spirito di chi accontenta qualcuno non eguale a lui, che per obbedienza. Era esattamente quello che provavo. Il sacerdote dovette intuire il mio pensiero, poiché scorsi un’ombra di collera passargli sul viso. Mi scrutò.
«Mi hanno detto che tu hai un certo anello.»
Con la stessa certezza di accontentare un individuo un po’ inferiore, girai il castone dell’anello del Kraken e tesi la mano verso di lui. Guardò l’anello, e la faccia bianca perse l’impassibilità. Si frugò nella cintura e ne trasse un astuccio, dal quale tolse un altro anello che posò accanto al mio. Vidi che era un po’ meno grande, e che la montatura non era identica. L’uomo studiò i due gioielli, poi con un respiro sibilante mi afferrò le mani e le girò, scrutandone le palme. Le lasciò ricadere, e si appoggiò alla spalliera del tronetto.
«Perché sei venuto da noi?» mi chiese.
M’invase un’ondata d’irritazione.
«Dwayanu deve forse stare in piedi come un semplice messaggero per venire interrogato?» chiesi, aspro.
Girai intorno al tavolo e mi lasciai cadere su uno dei seggi.
«Si faccia portare da bere, perché ho sete. Fino a quando la mia sete non sarà placata, non parlerò.»
Un lieve rossore gli chiazzò la faccia bianca; e Tibur emise un ringhio. Mi stava guardando ferocemente, con il volto avvampato; l’Incantatrice era ritta, lo sguardo intento su di me, non più beffardo: l’interesse si era intensificato. Mi resi conto che il trono da me usurpato era quello di Tibur. Risi.
«Stai in guardia, Tibur!» dissi. «Questo può essere un presagio!»
Il Gran Sacerdote intervenne, placido.
«Se egli è veramente Dwayanu, Tibur, allora nessun onore è troppo grande per lui. Fai portare del vino.»
L’occhiata che il Fabbro lanciò a Yodin mi sembrò interrogativa. Forse anche l’Incantatrice pensava lo stesso. Si affrettò a parlare.
«Provvederò io.»
Tornò alla porta, l’aprì e impartì l’ordine ad una guardia. Attese, mentre noi restavamo in silenzio. Pensai a molte cose. Pensai, per esempio, che non mi piaceva l’occhiata scambiata tra Yodin e Tibur, e che mentre potevo fidarmi di Lur, per il momento… lei avrebbe dovuto bere per prima, quando avrebbero portato il vino. E pensai che avrei detto loro ben poco del modo in cui ero giunto alla Terra Oscurata. E pensai a Jim… e pensai ad Evalie. Mi fece dolere il cuore, e provai la solitudine dell’incubo; e poi sentii il fiero disprezzo dell’altra parte di me, la sentii dibattersi nei ceppi in cui l’avevo posta. Poi giunse il vino.
L’Incantatrice portò alla tavola la caraffa e il calice e me li posò davanti. Versò il vino giallo nel calice e me lo porse. Le sorrisi.
«Prima beve la coppiera,» dissi. «Così era nei tempi andati, Lur. Ed io amo le vecchie tradizioni.»
Tibur si morse il labbro e si tirò la barba, ma Lur prese il calice e lo vuotò. Io lo riempii e lo levai verso Tibur. Provavo il desiderio malizioso di farmi beffe del Fabbro.
«Tu lo avresti fatto se fossi stato il coppiere, Tibur?» gli chiesi, e bevvi.
Il vino era squisito! Mi formicolò nel sangue, ed io sentii l’implacabilità inebriante sussultare in me, come una sferzata. Riempii di nuovo il calice, e lo gettai via.
«Vieni, Lur, e siedi con noi,» dissi. «Tibur, unisciti a noi.»
L’Incantatrice prese posto in silenzio sul terzo trono. Tibur mi sorvegliava: scorsi un’espressione nuova nei suoi occhi, un po’ del furtivo interesse che avevo sorpreso in quelli di Lur. Il sacerdote dal viso bianco guardava lontano. Mi accorsi che tutti e tre erano immersi nei propri pensieri, e che Tibur cominciava a sentirsi a disagio. Quando mi rispose la sua voce aveva perduto ogni truculenza.