Giusto in tempo per vedere l’Incantatrice che entrava furtiva nella camera del Gran Sacerdote.
Arrivammo ad un’altra porta sorvegliata. La spalancarono ed io entrai, seguito dai tre giovani.
«Anche noi siamo al tuo servizio, Signore,» disse la capitana dagli occhi arditi. «Se desideri qualcosa, chiamami con questo. Staremo accanto alla porta.»
Mi consegnò un piccolo gong di giada, salutò di nuovo e uscì a passo di marcia.
La stanza aveva un aspetto stranamente familiare. Poi mi accorsi che era molto simile a quella in cui mi avevano condotto nell’oasi. Vi erano gli stessi strani sgabelli, le stesse sedie di metallo, lo stesso divano ampio e basso, gli arazzi alle pareti, i tappeti sul pavimento. Ma qui non c’erano segni di decadenza. Alcuni arazzi, certo, erano scoloriti dal tempo, ma in modo squisito; non erano laceri e sbrindellati. Gli altri erano splendidamente intessuti, ma sembravano appena usciti dal telaio. Le antiche tappezzerie erano ornate delle stesse scene di caccia e di guerra dei logori drappi dell’oasi; in una di esse il Ponte Nansur s’inarcava intatto, un’altra rappresentava una battaglia con i pigmei, un’altra ancora una scena della foresta, fantasticamente incantevole… con i lupi bianchi di Lur che si aggiravano furtivi tra gli alberi. Ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa fuori posto. Cercai e cercai, prima di scoprire di cosa si trattava. Nella camera dell’oasi c’erano state le armi del suo antico padrone, spade e lance, elmo e scudo. In quella stanza, invece, non c’erano armi. Ricordai che avevo portato la spada del seguace di Tibur dentro alla stanza del sacerdote. Ma adesso non l’avevo più.
Cominciai a provare un senso d’inquietudine. Mi girai verso i tre giovani Ayjir, cominciando a sbottonarmi la camicia. Quelli si fecero avanti in silenzio e cominciarono a svestirmi. All’improvviso provai una sete divorante.
«Portami dell’acqua,» dissi ad uno dei giovani. Quello non mi badò neppure.
«Portami dell’acqua,» dissi ancora, pensando che non mi avesse udito. «Ho sete.»
Quello continuò tranquillo a sfilarmi uno stivale. Gli toccai la spalla.
«Portami dell’acqua da bere,» dissi con enfasi.
Lui mi sorrise, aprì la bocca e indicò. Non aveva lingua. Si additò le orecchie. Capii: mi stava spiegando che era sordo e muto. Indicai i suoi due compagni. Annuì.
La mia inquietudine s’intensificò. Era un’usanza generale dei signori di Karak: quei tre erano stati ridotti così non solo per servire in silenzio ma anche per non udire ciò che dicevano certi ospiti? Ospiti… o prigionieri?
Battei il gong con un dito. Subito la porta si aprì, e comparve la capitana, in atto di saluto.
«Ho sete,» dissi. «Portami dell’acqua.»
Per tutta risposta attraversò la stanza e scostò uno dei tendaggi: dietro stava un’alcova ampia e profonda. Nel pavimento c’era una vasca in cui scorreva dell’acqua pura, e accanto un bacino di porfido dal quale scaturiva un getto, come una piccola fonte. La donna prese un calice da una nicchia, lo riempì sotto il getto e me lo porse. L’acqua era fredda e scintillante.
«C’è altro, Signore?» domandò. Io scossi il capo, e lei se ne andò.
Tornai ad affidarmi alle premure dei tre sordomuti. Mi tolsero il resto degli abiti e cominciarono a massaggiarmi con un olio leggero e volatile. La mia mente, intanto, aveva preso a funzionare intensamente. Per prima cosa, il dolore al palmo della mano continuava a ricordarmi l’impressione che qualcuno avesse cercato di sfilarmi l’anello dal pollice. In secondo luogo, più ci pensavo e più ero sicuro che prima che mi svegliassi, o che uscissi dallo stordimento o dall’ebrezza, il sacerdote dalla faccia bianca mi aveva parlato molto a lungo, interrogandomi, sondando la mia mente obnubilata. E in terzo luogo, avevo perduto quasi interamente quel magnifico sprezzo delle conseguenze che tanto aveva contribuito a portarmi fin lì… Anzi, ero troppo Leif Langdon e troppo poco Dwayanu. Che cosa aveva inteso fare il sacerdote, parlandomi e interrogandomi… ed io, cosa avevo detto?
Mi strappai alle mani dei massaggiatori, corsi dov’erano i miei calzoni e frugai nella cintura. L’anello c’era. Cercai la mia vecchia borsa. Era sparita. Suonai il gong. Arrivò la capitana. Io ero nudo, ma non avevo affatto l’impressione di trovarmi di fronte ad una donna.
«Ascoltami,» dissi. «Portami del vino. E porta anche un astuccio robusto, abbastanza grande per contenere un anello. E porta una solida catena per appendermi al collo l’astuccio. Hai capito?»
«Sarà fatto, Signore,» disse lei. Non tardò molto a tornare. Posò la caraffa che aveva portato e si frugò nella blusa. Ne trasse un grosso medaglione appeso a una catena metallica, lo apri.
«Questo può andare, Signore?»
Le voltai le spalle e infilai nel medaglione l’anello di Khalk’ru. Andava benissimo.
«Ottimamente,» le dissi. «Ma non ho nulla da darti in cambio.»
La capitana rise.
«È una ricompensa sufficiente averti visto, Signore,» disse, senza ambiguità, e se ne andò. Mi appesi il medaglione al collo. Mi versai un calice di vino, poi un altro. Tornai dai massaggiatori e cominciai a sentirmi meglio. Bevvi mentre mi facevano il bagno, bevvi mentre mi pareggiavano i capelli e mi radevano. E più bevevo e più veniva a galla Dwayanu, freddamente infuriato e risentito.
La mia antipatia per Yodin crebbe. Non diminuì quando i tre mi abbigliarono. Mi misero indosso una sottoveste di seta. La coprirono con una magnifica tunica gialla intessuta di fili metallici azzurri; mi rivestirono le gambe con gli ampi calzoni della stessa stoffa; mi affibbiarono alla vita un’alta cintura costellata di gemme, mi allacciarono ai piedi sandali di morbida pelle dorata. Mi avevano rasato; poi mi spazzolarono e acconciarono i capelli, che avevano tagliato all’altezza della nuca.
Quando loro ebbero terminato con me, io avevo finito il vino. Ero un po’ ubriaco, e desideravo esserlo di più, e non ero in vena di ammettere scherzi. Suonai il gong per chiamare la capitana. Volevo altro vino, e volevo sapere quando, dove e come avrei mangiato. La porta si aprì, ma non fu la capitana che entrò.
Fu l’Incantatrice.
XV
IL LAGO DEGLI SPETTRI
Lur si soffermò, con le rosse labbra socchiuse, e mi guardò. Era chiaramente sbalordita dalla trasformazione che gli indumenti degli Ayjir e le cure dei sordomuti avevano operato nella figura sgocciolante e inzaccherata che s’era trascinata sulla riva del fiume non molto tempo prima. Le brillarono gli occhi, un colorito roseo più intenso le chiazzò le guance. Si avvicinò.
«Dwayanu… vieni con me?»
La guardai e risi.
«E perché no, Lur? Ma quale è il motivo?»
Lei mormorò: «Sei in pericolo… che tu sia Dwayanu o che non lo sia. Ho convinto Yodin a farti rimanere con me fino a quando andrai al tempio. Con me sarai al sicuro… fino ad allora.»
«E perché fai questo per me, Lur?»
Non rispose: si limitò a posarmi una mano sulla spalla e mi guardò con gli occhi azzurri inteneriti, sebbene il buon senso mi dicesse che la sua sollecitudine aveva motivi diversi da un’improvvisa passione per me, quel tocco e quello sguardo mi fecero scorrere il sangue nelle vene, e mi fu difficile controllare la voce e parlare.
«Verrò con te, Lur.»
Si avvicinò alla porta e l’aprì.
«Guarda, il mantello e il berretto.» Tornò da me portando un manto nero che mi gettò sulle spalle e mi allacciò al collo; mi calcò sui capelli gialli un berretto aderente simile a quello frigio sotto al quale nascose le ciocche che erano rimaste fuori. A parte la statura, sembravo un qualunque Ayjir di Karak.
«Dobbiamo affrettarci, Dwayanu.»