«Sono pronto. Aspetta…»
Andai dov’erano i miei vecchi vestiti e li arrotolai intorno agli stivali. Dopotutto… potevo averne bisogno. L’Incantatrice non fece commenti, aprì la porta: uscimmo. La capitana e la sua guardia erano nel corridoio, insieme ad una mezza dozzina delle donne di Lur: erano creature splendide. Poi notai che tutte indossavano una leggera cotta di maglia e, oltre alle due spade, portavano un martello da lancio. Anche Lur era armata allo stesso modo. Evidentemente si aspettavano qualche guaio, da me o da altri: e in ogni caso, non ne ero entusiasta.
«Dammi la tua spada,» dissi bruscamente alla capitana. Quella esitò.
«Dagliela,» disse Lur.
Soppesai l’arma in mano: non era pesante quanto avrei voluto, ma era pur sempre una spada. Me la infilai nella cintura, e ressi con il braccio sinistro il fardello dei vecchi abiti, sotto il mantello. Ci avviammo per il corridoio, lasciando la guardia alla porta.
Percorremmo solo un centinaio di metri, poi entrammo in una stanzetta spoglia. Non avevamo incontrato nessuno. Lur trasse un respiro di sollievo, si accostò a una parete, ed una lastra di pietra si aprì, rivelando un passaggio. Vi entrammo e la lastra si chiuse, lasciandoci in un’oscurità di pece. Vi fu una scintilla, prodotta non so come, ed il luogo s’illuminò: le fiaccole tenute da due donne si erano accese. Ardevano con una fiamma chiara, ferma e argentea. Le portatrici di torcia ci precedettero. Dopo un po’ arrivammo in fondo al passaggio: le luci vennero spente, un’altra pietra si spostò, e noi uscimmo. Udii un brusìo, e quando il riverbero delle torce fu svanito, vidi che ci trovavamo alla base d’uno dei muri della cittadella nera, e che vicino a noi c’era un’altra mezza dozzina delle donne di Lur, con dei cavalli. Una condusse avanti un grosso stallone grigio.
«Monta, e cavalca al mio fianco,» disse Lur.
Fissai il fardello al pomo dell’alta sella, e salii sul grigio cavallo. Ci avviammo in silenzio. Nella terra sotto il miraggio non era mai completamente buio: c’era sempre una fioca luminescenza verde, ma quella notte era più vivida che mai. Mi chiesi se c’era la luna piena che splendeva sui picchi della valle. Mi chiesi se saremmo andati lontano. Non ero ebbro quanto lo ero stato quando Lur era venuta da me, ma in un certo senso lo ero di più. Provavo una bizzarra sensazione di euforia decisamente piacevole, un’irresponsabilità spensierata; e volevo continuare a sentirmi in quel modo. Mi augurai che Lur avesse vino in abbondanza, là dove mi stava conducendo. Avrei voluto poter bere anche in quel momento.
Stavamo attraversando la città oltre la roccia, in fretta. L’ampia strada era ben pavimentata. C’erano luci accese nelle case e nei giardini e la gente cantava, suonava tamburi e flauti. La cittadella nera poteva essere sinistra, ma non pareva gettare ombre sulla popolazione di Karak. O almeno così pensavo allora.
Uscimmo dalla città, su di una strada liscia che correva tra la folta vegetazione. Intorno svolazzavano le falene luminose, simili a velivoli fatati, e per un momento un ricordo mi trafisse, ed il volto di Evalie aleggiò davanti a me. Non durò neppure un secondo. Il cavallo grigio procedeva dolcemente, ed io cominciai a cantare un’antica canzone kirghisa che parlava di un innamorato il quale andava a cavallo, nel chiaro di luna, dalla sua bella, e di quello che trovava al suo arrivo. Lur rise, e mi coprì la bocca con la mano.
«Silenzio, Dwayanu! C’è ancora pericolo.»
Allora mi accorsi che non avevo cantato in kirghiso, bensì in uiguro, la lingua da cui deriva probabilmente il kirghiso. E poi ricordai che non avevo mai sentito quella canzone in uiguro. Il vecchio problema si affacciò alla mia mente, e non durò più del ricordo di Evalie.
Di tanto in tanto intravvedevo il fiume bianco. Poi procedemmo disposti in una lunga fila: la strada si restringeva, e dovemmo cavalcare l’uno dietro l’altro, tra pareti perpendicolari coperte di vegetazione. Quando ne uscimmo, la strada si biforcò. Da una parte procedeva diritta; dall’altra deviava bruscamente verso sinistra. Prendemmo quest’ultima e proseguimmo per cinque o sei chilometri, nel cuore della strana foresta. I grandi alberi tendevano le braccia sopra di noi: i candelabri e le lanterne e i tralci di fiori oscillanti brillavano come fantasmi nella luce pallida; gli alberi dalla corteccia scagliosa erano come guerrieri che montavano la guardia. E le fragranze inebrianti, le esalazioni stranamente stimolanti erano forti… forti. Uscivano pulsando dalla foresta, ritmicamente, come se fossero i battiti di un cuore ubriaco di vita.
Arrivammo alla fine di quella strada ed io abbassai lo sguardo e vidi il Lago degli Spettri.
Mai, mi dissi, in tutto il mondo era mai esistito un luogo di bellezza così ultraterrena, sconvolgente e mozzafiato come quel lago sotto il miraggio, dove aveva la sua dimora Lur l’Incantatrice. E se non fosse stata l’Incantatrice prima di andare a dimorare lì, sarebbe stato quel luogo a renderla tale.
Il lago aveva la forma di una punta di freccia, e le sponde più lunghe superavano di poco la lunghezza di un chilometro e mezzo. Era racchiuso da collinette basse, dalle pendici coperte di felci, che con le fronde piumate le rivestivano come il petto di gigantesche paradisee, s’innalzavano come fontane, si libravano come immense ali verdeggianti. L’acqua era color smeraldo pallido, e scintillava come uno smeraldo, placida e imperturbata. Ma sotto quella superficie tranquilla c’erano movimenti… cerchi luminosi di verde argenteo che si allargavano rapidi e svanivano, raggi che si allacciavano e s’intrecciavano in forme geometriche fantastiche eppure ordinate; spirali luminose, nessuna delle quali, tuttavia, affiorava alla superficie ad infrangerne la serenità. E qua e là vi erano grappoli di luci tenere, come rubini vaporosi, zaffiri annebbiati ed opali e perle lucenti… luci incantate. I gigli luminosi del Lago degli Spettri.
Là dove la punta della freccia toccava terra non c’erano felci. Un’ampia cascata si dispiegava come un velo sopra il precipizio, mormorando. Là si levavano vapori che si mescolavano all’acqua cadente, danzavano lenti, ondeggiando, protendendosi con dita spettrali come per toccarla. E dalle rive del lago altre fantasime di foschia si alzavano, veleggiavano rapide sopra la distesa di smeraldo e si univano alle altre danzanti sulla cascata. Così io vidi per la prima volta il Lago degli Spettri, nella notte del miraggio, e non era meno bello nel giorno del miraggio.
La strada scendeva nel lago, come l’asta d’una freccia. Alla sua estremità c’era quella che un tempo, suppongo, era stata un’isoletta. Era a circa due terzi di distanza. Sopra i suoi alberi spuntavano le torrette d’un piccolo castello.
Conducemmo i cavalli al passo per la discesa ripida, fino alla strettoia dove il sentiero diventava simile all’asta della freccia. Lì non c’erano felci che potessero nascondere estranei in marcia di avvicinamento: erano state estirpate, e la collina era coperta dai fiorellini azzurri. Quando arrivammo alla strettoia, vidi che era un camminamento sopraelevato di pietra. Il luogo cui eravamo diretti era ancora un’isola. Pervenimmo al termine del camminamento, e c’era un varco d’una dozzina di metri tra quel punto ed un molo sulla sponda opposta. Lur si staccò dalla cintura un minuscolo corno e suonò. Cominciò a cigolare un ponte levatoio, che scese sopra il varco. L’attraversammo, e ci trovammo in mezzo ad una guarnigione composta dalle sue donne. Salimmo al galoppo una strada tortuosa, e mentre ci allontanavamo udii il cigolio del ponte che si rialzava. Ci arrestammo davanti alla dimora dell’Incantatrice.
Alzai gli occhi e la guardai con interesse: non perché mi fosse ignota, che anzi non lo era. Ma stavo pensando che non avevo mai visto un castello simile costruito con quella strana pietra verde e con tante torrette. Sì, li conoscevo bene. «Castelli per dame», li avevano chiamati: Iana’rada, dimore per le favorite, luoghi per riposare, posti per fare l’amore dopo la guerra o quando si era stanchi degli affari di Stato.